Grato m’è il sonno - 8° puntata



Grato m’è il sonno
8° puntata
romanzo di Maria Luisa Ferrantelli
Pubblicato nel 1989 –
Copyright  © Maria Luisa Ferrantelli
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Arpa eolica ringrazia l’autrice per il permesso di pubblicazione in 10 puntate


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8° puntata


 Val Crepuscolo era immensa, seminata di paesi, villaggi, frazione, la popolazione lì più dispersa che mai: ortolani e carrettieri che stavano via giorni e giorni per vendere i prodotti; contadini disseminati a falciare erba fino a sera, fermandosi anche a dormire la notte nei piccoli masi dispersi; pastori sulla malghe. Per i due si profilava un soggiorni piuttosto lungo. Santos prese in affitto una stanza nella locanda del paese maggiore. I giorni non passavano mai.
In quel periodo parlò a lungo dei colori col suo singolare discepolo e questi lo ascoltava con grande interesse ed apprendeva non senza qualche progresso.
 “Ora abbandoniamo i colori astratti dalle forme. Hai imparato a sentire il loro linguaggio?”
 “Credo di sì”.
 “Cosa ti suggerisce per esempio il rosso?”
 “Movimento, ardore, lotta…” rispose Cosma.
 “E il verde?”
 “Quiete, pace, silenzio”.
 “Bene. Ora passeremo a farli esprimere attraverso la forma. Bada che non si tratta di tracciare immagini e colorarle, ma piuttosto di far sì che l’immagine emerga dal colore e dalla luce, come se fossero questi a produrla”.
 Egli fece molti esempi pratici e poi lasciò che Cosma si esercitasse autonomamente.
 Intanto, specie quando il vecchio era in giro per incontrar gli abitanti del luogo, il giovane riempiva le sua giornate plasmando statuette di creta e spesso si ritrovava a tentare di raffigurare Dafne, così come era apparsa ai suoi occhi. Cosma, che talvolta restava a guardarlo lavorare, un giorno osservò:
 “A volte mi sembri impaziente e scontento del tuo lavoro”.
 “Lo sono, infatti” rispose Santos.
 “Pure per me sei molto bravo”.
 Il giovane scosse il capo.
 “Non sono l’artista che vorrei”.
 “E’ poi tanto importante essere un artista?”
 “Forse per te è un giuoco, da che non può più essere un mito, come certo deve esserlo stato” fece Santos con tono quasi severo.
 “E per te che cos’è?”
 “E’ il grado più alto di conoscenza e di realizzazione di sé che l’uomo possa raggiungere”.
 “Io penso che il miglior modo di essere, per ognuno, sia seguire la propria strada, e che molte cose, oltre l’arte, servono a far camminare il mondo”.
 “E’ vero, ma non vorrai mettere tutto sullo stesso piano”.
 “Cosa diresti tu che sia più importante in una pianta, le foglie, i semi, le radici, il tronco, i fiori, i frutti…”
 “Una cosa so di certo: che, quanto a me, io aspiro all’espressione che ne è come il coronamento, vorrei cioè essere il frutto”.
 “Ci sono uomini che hanno questo destino” ammise il vecchio. “Però non dimentichiamo che se i frutti esistono, è proprio grazie ai semi ed alle radici nascosti nella terra ed alle centinaia di foglie che devono continuamente nascere e morire, centinaia per un solo frutto. E’ come dire che il frutto stesso deve prima essere stato tutto questo ed è debitore a tanta parte della natura”.
 “E’ un rimprovero?” fece Santos.
 “Io rimproverarti?” sorrise Cosma. “E con che diritto? Proprio io che da giovane, come tu hai giustamente capito, ho avuto questi stessi miti, per poi finire come sai! Però devo dire che col passare degli anni ho modificato il mio modo di sentire, per rassegnazione, tu dirai; può darsi. E’ facile ammirare il frutto, il fiore, la foglia, quando di volta in volta cadono sotto il nostro sguardo; ma il seme che è nascosto sotto terra e che è contemporaneamente già foglia, fiore e frutto, nessuno lo vede. Così è per la saggezza, che riposa solo nel pensiero e nel silenzio”.
 “Già” fece Santos, sempre continuando a modella re. “Con questo ragionamento però io potrei anche smettere di fare ogni cosa”.
“Hai ragione” gli rispose Cosma. “Oh, ma io allora non avrei mai parlato così! E forse, nei tuoi panni, avrei mandato al diavolo un vecchio perdigiorno come me!” concluse ridendo.
 “Io ho il mio interesse!” rise a sua volta Santos.

 Quella notte, più reale che mai, quasi animata, Santos vide in sogno davanti a sé la statua di Dafne. La cinse con le braccia e con sorpresa sentì che sotto il peplo marmoreo la sua persona era morbida e tiepida e cedeva all’abbraccio; egli allora premette perdutamente tutto il suo corpo contro di lei ed anche ella prese a rispondere con voluttuose e sempre più frequenti pressioni; le membra di Santos si tendevano fino allo spasimo estremo; ormai solo quelle vesti, le cui rigide pieghe avevano in realtà al tatto la consistenza di un velo, li separavano; con mani convulse egli le aprì e squarciò: cedettero come fossero una candidissima carta e sotto apparve nuda la pelle bruna e viva della donna, ma gelida e dura come una pietra impenetrabile si chiuse sulla carne tormentata e rovente del giovane. Egli si destò con un gemito.
 La porta del sogno si era richiusa brutalmente alle sue spalle. La mente ancora nell’affanno del sogno, il corpo presente nella quieta penombra silenziosa di una stanzetta in cui filtrava dalle imposte socchiuse il sole del mattino insieme ad un cinguettìo sommesso.
 Cosma era già in piedi e in quel momento lo stava osservando, ma distolse subito lo sguardo appena lo vide sveglio. Santos si alzò ed aprì la porta che dava direttamente sulla strada a respirare profondamente l’aria del mattino. Il sole inondò la stanza.
“Tieni, prendi un po’ di latte” fece il vecchio, porgendogli una ciotola. Egli si volse meccanicamente, la prese e sedette alla tavola.
 Ma quel turbamento non poteva abbandonarlo, era ancora imprigionato in quel sogno troppo vivo, che sembrava ad un passo dal realizzare l’amore assoluto e perfetto e, nel contempo, svelarne il mistero della sua umana impossibilità. Ma ciò che più lo esasperava di tutta la sua breve estasi di celeste e terrena perfezione fuse insieme, quello che nella realtà perdurava era l’ardore delle sue inappagate viscere; e questo aggiungeva al turbamento un nuovo turbamento: il senso di profanare in tal modo e contaminare l’immagine di Dafne.
 “Sei troppo giovane, ragazzo, per la solitudine” mormorò improvvisamente Cosma, che sedeva già da un po’ davanti a lui, senza che egli neppure se ne avvedesse, e lo guardò un attimo con uno sguardo di sottinteso. Santos arrossì lievemente: quel vecchio, forse per la semplice esperienza che viene naturalmente dagli anni, sembrava talvolta leggergli nell’anima; ma le sue osservazioni apparivano poi sovente al giovane di un intollerabile semplicismo. Era inutile tentare di rispondergli che non era certo quello il suo problema.
 Proprio in quella, una ridente voce femminile li fece volgere entrambi.
 “Salve, Santos! Ti ho trovato!”. Cinzia era sulla porta nel sole del mattino. Santos le andò incontro così prontamente come non avrebbe fatto neppure se l’avesse aspettata.
 “Cinzia cara!” esclamò abbracciandola. “Quanto tempo!”
 “Sì, veramente tanto” rispose lei.
 Egli continuava a guardarla come inebetito. Poi, come se improvvisamente si ricordasse di qualcosa:
 “Questo è il mio amico Cosma” le disse accennando al vecchio.
“Ma…cos’hai?” fece Cinzia dopo un po’, ridendo. “Mi sembri stordito!”
 “Andiamo fuori a parlare” le fece Santos sottovoce. “E’ tanto che non parliamo un po’” e la prese per mano, conducendola nel piccolo uliveto, sul retro della casa.
 “Vieni” disse appoggiandosi con le spalle ad un albero ed attirandola contro di sé. “Dimmi di te. Come stai?”
 “Bene. Sono solo di passaggio, sto andando al mulino e poiché ho saputo da conoscenti che eri da queste parti, sono passata a salutarti”.
 “Hai fatto bene” rispose Santos distratto, mentre le sue mani continuavano a carezzarle la schiena ed i fianchi e il suo respiro si faceva troppo affannoso per una normale conversazione.
 “E tu?” chiese Cinzia. “Ti trovo strano. Che ti succede?”
 Santos non riusciva molto a pensare e che cosa avesse non era facile da spiegare, non solo a lei, ma a se stesso: era forse l’ansia di spegnere il fuoco acceso nelle sue carni dalla notte e non ancora domato, o la volontà di estinguere così quella sete, quasi per purificarsene, perché essa non potesse offuscare Dafne ed intorbidire un’aspirazione solo a lei destinata?
 “Ma Cinzia…è tanto tempo…” seppe solo dire. Ella tentò dolcemente di svincolarsi dal suo abbraccio, ma egli la strinse più forte.
 “Resta così, te ne prego!” le soffiò nell’orecchio. “Mi basta questo, non ti chiedo altro…Non senti quanto ti desidero?”
 “Lo so” rispose lei, togliendo tranquillamente le mani di lui dai suoi fianchi e staccandosi. “Sei tu che vuoi così”.
 “Perché mi vuoi lasciare così?” chiese desolato il giovane. “Quando mai ti ha offeso il mio desiderio?”
 “Non mi offende, infatti. Anzi. Ma per ciò di cui ora hai bisogno, io non sono necessaria. Volevo solo vederti ed ho molta fretta. Ad un’altra volta” e lo guardò con occhi insolitamente severi, occhi che forse per la penombra delle foglie, forse per la dilatazione delle pupille, apparvero a Santos stranamente profondi e neri.
 Egli a quell’improvviso mutamento rimase interdetto al punto da non riuscire neppure a risponderle: era la prima volta che Cinzia gli si rifiutava. Quando si riscosse per salutarla, era già lontana. Una specie di infantile dispetto si impossessò di lui rendendo incontenibile la sua esasperazione. Con rabbiosa impotenza si volse allora verso la pianta, serrandone fra le ginocchia tremanti il tronco docile ed aspro. Neppure tu sei mai stata mia! Fremette pensando a Cinzia e prolungandone illusoriamente la sensibile impronta ancora viva su di lui. Ma subito tornò in sé e negò alle sue membra una tregua così ridicola ed umiliante. Andò allora verso il pozzo ed a grandi manate si gettò sul viso e sul petto l’acqua gelida per dissipare il turbine delle sue fantasie.
 Cosma, vedendolo entrare, osservò:
 “E’ molto graziosa la tua ragazza”.
 “Non è la mia ragazza” rispose egli.
 “E’ un peccato, perché si vede che ti ama”.
 Santos alzò le spalle.
 “Mah!” fece. “Quel che prova una donna, chi può capirlo? Se mai mi ha amato, ora comunque non credo che mi ami più. Mi ha respinto”.
 “Già” fece il vecchio e tacque. “E tu la ami?” chiese poi.
 “Certo che mi è cara…Ma ci sono molti modi di amare…”
 “No!” rise questi. “Ce n’è uno solo!”
 Santos si alzò irritato.
 “Per te, forse!” proruppe. Si infilò una camicia asciutta ed uscì.
 Quando più tardi rientrò, Cosma lo aveva preceduto.
“Ancora niente” disse vedendolo. “Dammi tempo fino a stasera e potrò considerare concluso il mio giro qui”.
 Santos annuì. Si accostò al tavolo e prese ad esaminare in silenzio i dipinti che il vecchio aveva intanto eseguiti. Ad un tratto ne prese in mano uno, esclamando:
 “E questo che cos’è?”
 Un sole verde si intravedeva nel fondo di un bosco di abeti rossi che sorgevano da un prato anch’esso rosso. Per un attimo gli attraversò la mente il sospetto che il vecchio per gli anni potesse avere qualche grave alterazione della percezione visiva; ma poi considerò che tutti gli altri suoi lavori smentivano questo dubbio.
 “Come hai potuto fare un accostamento così sgradevole oltre che illogico?” proruppe di nuovo. “E’ mostruoso, non ti accorgi?”
 “E’ stato solo un esperimento” si scusò quasi Cosma.
 “E’ presto per te fare esperimenti” lo liquidò Santos, ammorbidendo appena il tono di autorità che istintivamente avrebbe usato con un qualunque ragazzo. Poi tornò a guardare quel dipinto e questa volta quasi con curiosità.
 “E’ strano” disse fra sé. “E’ di una bruttezza che quasi ti cattura. Questa maledetta crosta, non so perché, comunica un senso quasi di paura. Se è questo che volevi rendere, ci sei riuscito”.
 “Mi ha detto di osservare tutto ciò che esprimono i colori, ed io ho osservato che ogni colore ne contiene sempre un altro nascosto che non si vede e che apparentemente non ha nulla a che fare con lui”.
 Il giovane aggrottò i sopraccigli.
 “Cosa vuoi dire?”
 “Dentro di me, dietro le palpebre chiuse, ne affiora un altro. Per esempio, se io fisso il sole, dalle tenebre che sono in me  emerge un disco verde; se fisso al contrario una luce verde, dentro di me nasce il rosso”.
 “Certo, si chiamano colori complementari” intervenne Santos.
 “Così ho pensato che sono un tutt’uno. E’ come dire che la lotta contiene dentro di sé la pace e viceversa…”
 E mentre così parlava, improvvisamente Santos rivide l’immagine nera di Dafne stagliata contro il cielo luminoso come gli apparve la prima volta che le parlò, e quella stessa sagoma come biancheggiò luminosa quando per un attimo chiuse gli occhi, quasi si riconvertisse dentro di lui nella marmorea statua.
 “Ora capisco” fece, tornando a guardare il quadro. “E’ vero, si tratta di una specie di rovesciamento. Però devi ammettere che il risultato è assai sgradevole, sembra un incubo”.
 Cosma lo guardò sorridendo.
 “Beh, in fondo anche gli incubi, come del resto i sogni, fanno parte della vita dell’uomo”.
 Il ricordo del sogno di quella notte affiorò brusco nella mente di Santos ed egli avvertì solo allora un piccolo brivido, stupendosi che nella sua fantasia quell’immagine avesse potuto assumere l’aspetto del piacere.
 L’indomani lasciarono quella valle.


Copyright  © Maria Luisa Ferrantelli

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post inserito il   19/02/2017

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