Grato m’è il sonno
romanzo
di Maria Luisa Ferrantelli
Pubblicato
nel 1989 –
Copyright © Maria
Luisa Ferrantelli
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Arpa
eolica ringrazia l’autrice per il permesso di pubblicazione in 10 puntate
2° puntata
Il sole era
alto e la strada piuttosto lunga. Senza pensare oltre la intraprese e camminò
circa un’ora, spinto da un’insolita energia, prima di giungere al casolare.
Cercò subito il vecchio, chiamando una donna dal di là del recinto.
“Non è in
casa” gli gridò questa “E’ andato al camposanto a trovare la moglie, ma sarà
qui tra una mezz’ora”.
Santos decise
allora di attenderlo e tornò un poco sui suoi passi. Nella canicola estiva e
nel riverbero ipnotico che la polvere bianca della strada rimandava, sedette
sotto un albero e, senza avvedersene, scivolò nel torpore.
Erano quelle
le ore del meriggio, nella quali il sole ha appena superato il suo culmine e la
calura è al massimo e tutto intorno silenzio ed immobilità, come se il tempo
per qualche istante cessasse di scorrere in una specie di attesa, per lasciar
passare un non so che di misterioso, simile ad una rivelazione invisibile; in
quell’istante tutta la natura sembra sospesa in uno strano silenzio, anche gli uccelli
e le cicale interrompono il loro canto. Le ore
magiche: chissà perché, fin da bambino, le aveva sempre chiamate così; ore
assorte, e, come proprio nel mezzo preciso tra il giorno e la notte, così,
interiormente, spazi intermedi tra illusione e realtà, attimi inafferrabili in
cui la coscienza ed il sonno si incontrano e si sfiorano smemorati e per un
istante la prima può affondare con occhi divenuti come fosforescenti il suo
sguardo nella tenebra. In quelle ore soprattutto egli si era trovato in preda ad
ispirazioni artistiche od a rapimenti di sensualità.
Così
assopito, vedeva se stesso aggirarsi nel bosco; poi, giunto al suo angolo
prediletto, non trovare più la statua sul piedistallo; si guardava allora
intorno dapprima sgomento, quindi, con sua indicibile felicità, scorgeva in
lontananza, tra il verde, la figura marmorea nell’atto di correre libera e
felice; si dava allora ad inseguirla, spensierato anch’egli come in un giuoco,
e man mano che la rincorreva ed accorciava la distanza che lo separava da lei,
sentiva crescere in sé la brama dei sensi. Infine ella si fermò e rimasero
così, l’uno di fronte all’altra. Si guardavano sorridendosi dolcemente; la
sensazione di Santos – e insieme l’esatta percezione che ogni cosa provata
fosse reciproca, quasi una sola anima fosse la loro – era quella di un momento
perfetto e di uno scambio totale, come mai avviene nell’incontro fra un essere
maschile ed uno femminile; eppure questo raggiungersi così perfetto sfuggiva a
qualunque logica e realtà umana, perché era un’intesa il cui senso di
completezza trionfava sulla reciproca impossibilità dei loro corpi di
congiungersi; anzi, egli pensava che tale stato di grazia non solo avvenisse
malgrado ciò, ma che addirittura potesse scaturire dall’assenza stessa dei loro
corpi. Tuttavia nello stesso tempo di una vera assenza non si poteva parlare:
Santos avvertiva la tensione del desiderio nella sua carne, come la intuiva
sotto il peplo di marmo che cadeva fino ai piedi della donna. Ella infatti,
continuando a sorridergli, prese a slacciare gli abiti che lo coprivano,
lentamente, come accingendosi ad un impossibile amplesso; e tuttavia tale
impossibilità nulla toglieva alla totalità della percezione amorosa, quasi che,
più che secondaria, le fosse complementare; e man mano che ella andava aprendo
i suoi panni ad uno ad uno, paradossalmente egli avvertiva che questo limite
era piuttosto in lui che non nel marmoreo corpo dell’amata. Quasi a conferma,
quando ella gli ebbe messo a nudo il petto, mormorò dolcemente :”Quanti vestiti
che hai!”, ed il suo sorriso amoroso aveva una lieve nota di tenera ironia, non
propriamente materna e neppure del tutto umana, ma quella piuttosto di una
divinità che osservi dall’alto del suo stato la condizione terrena.
A questo punto il sogno terminava. Egli si
ridestò con la sensazione di un assetato che finalmente sia riuscito ad
impossessarsi di un bicchiere d’acqua ma abbia potuto bagnarvi appena le
labbra. Perché quel dialogo meraviglioso si era così bruscamente interrotto,
come se un attimo così perfetto non potesse avere altro seguito? Guardò il
cielo: il sole era un po’ più basso. “Già, l’ora è passata”, si disse con
ingenua convinzione, quasi quella potesse essere la logica spiegazione alla
rottura dell’incantesimo. Improvvisamente pensò: “Il vecchio deve essere
rincasato”. Quasi se ne era dimenticato. Si alzò di scatto e si avviò
nuovamente verso il casolare.
Lo vide
infatti, proprio seduto sulla panca davanti alla porta di casa.
“Sto facendo
delle ricerche su quella statua della dea che sorge vicino alla fonte, proprio
nel mezzo del bosco…” prese a dire dopo essersi presentato.
“Sì, ho
capito perfettamente “ lo interruppe il vecchio.
“Bene, sono
interessato a conoscere tutti i particolari della sua storia. Mi han detto che
voi ricordate molte cose…”
“Dovete
sapere che circa vent’anni orsono il vecchio governatore della regione volle
che nel paese più importante, quello appunto da cui voi venite, e precisamente
nel centro di quella folta macchia, sorgesse una statua femminile e a tale scopo
bandì un concorso. Allora tutta la regione vantava ancora la presenza di molti
maestri d’arte come voi e di gran valore, perché era una tradizione che si era
mantenuta. Il governatore dunque aveva dato un paio di settimane di tempo.
Ricordo come ora il fermento qui attorno, il darsi da fare di tanti artisti,
convenuti anche da paesi stranieri: andavano personalmente alle cave per
scegliersi il blocco di marmo, andavano cercando
per tutti i villaggi donne che potessero servire
loro da modelle. Insomma, questa era l’atmosfera e tutto il paese non parlava
d’altro ed attendeva con gran curiosità il giorno della esposizione delle opere
e della premiazione della migliore. Certo, a quel tempo voi dovevate essere un
bambino, ma questo non è un ricordo così antico da non essere a conoscenza di
quasi tutti. Ciò che pochi sanno è altro. Voi sapete che quella statua rimase
anonima…”.
“Infatti”.
“Bene. Fra
tanti artisti indaffarati, mi aveva colpito un tale che vedevo aggirarsi da
queste parti, perché, osservandolo meglio, riconobbi, o almeno a me così parve,
nella sua fisionomia un po’ trasformata dal tempo, un giovane che ebbi
l’occasione di vedere moltissimi anni addietro. Questo giovane, allora
sconosciuto, avevo poi saputo che si era affermato in giro all’estero per oltre
un ventennio e, raggiunta la fama, si era ritirato, non si sa bene dove e non
aveva fatto più parlare di sé”.
“Ma di chi si
tratta?”.
“Un certo
Orfeo. Ma questo era, come si dice, il nome d’arte…”.
“Orfeo!”
esclamò Santos fuori di sé “E’ dunque sua quella statua!”.
“Lo
conoscete? Dunque è vero quel che intesi dire della sua fama”.
“Orfeo è uno
dei più grandi artisti contemporanei. Ma voi non ne parlaste mai a nessuno?”.
“Allora non
mi era sembrata una cosa tanto importante. Solo in seguito venni a sapere
qualcosa della sua grandezza, ma a distanza di anni non mi si crederebbe
neppure più”.
“Ma come
avvenne che poté mantenere l’incognito?”.
“Passò qui
come una meteora dopo una lunga eclisse, per sparire di nuovo, e nessuno lo
seppe mai. Quando io ebbi a riconoscerlo, erano già più di vent’anni che questo
Orfeo non si faceva più vedere e nessuno probabilmente si avvide che era
tornato. Il tempo velocemente ci rende stranieri alla nostra terra, quando si
mettono radici nel vento. Quando la sua statua fu scelta, egli era già partito
e neppure si presentò alla premiazione”.
“Che storia
singolare!” mormorò fra sé Santos “E che ironia per la propria gente, che beffa
per la sete di ambizione e per la gloria in persona! Che uomo straordinario
deve essere!”.
“Era
singolare anche il suo modo di lavorare. Mi ricordo che, a differenza degli
altri, se ne stava spesso seduto a pensare, come se avesse tutto di dentro e di
lì solamente dovesse venir fuori. Anzi, a dire il vero, più che pensare, spesso
sembrava dormire, sì, potrei affermare che quasi per tutto il tempo egli dormì,
e proprio lì, vedete?” disse puntando il dito “lo ricordo ancora, sotto
quell’ulivo dove eravate seduto voi poco fa. Credo che abbia compiuto la sua
opera solo negli ultimi giorni e fu appunto quella che vinse. Anche secondo me
è una delle più belle cose che siano mai state fatte” concluse come
compiaciuto.
“E’
rintracciabile, secondo voi?”.
“Molto
difficile, sebbene io sia convinto che si sia ritirato qui, nella sua
terra…Nessuno conosce il suo nome vero ed i paesani che possono averlo
conosciuto, non associano certo al suo nome quello di Orfeo. Divenne famoso in
giro, lontano di qui e inoltre saranno più di vent’anni che non produce,
eccetto naturalmente quella parentesi sconosciuta di cui vi ho parlato…sempre
che voi vogliate crederlo, perché, quando mi capitò di raccontarlo, non fui
preso molto sul serio…”.
“Io vi credo.
Solo quel nome può giustificare l’inesplicabile grandezza di un’opera come
quella”.
“Posso
aggiungere un altro particolare che pochi sanno, dal momento che vi vedo così
interessato” riprese il vecchio, dopo essere rimasto come sospeso in un
silenzio pregno di reminiscenze “Il personaggio raffigurato si chiama Dafne,
questo è sicuro perché me lo disse lo stesso autore; qualche volta in quei
giorni egli si compiacque di rivolgermi anche la parola”.
“Dafne?”
rispose Santos perplesso “E’ un nome mitico, ma non ricordo più la storia né il
suo senso”.
“Mah, chi
sia, io non lo so!” fece il vecchio per tutta risposta. “Ma non mancano
professori che potrebbero rispondere alla vostra curiosità”.
“Sì, chiederò
a loro. E che cosa può significare quella frase incisa sulla base della statua?
Orfeo vi disse anche questo?”.
“Quale frase?
Io non l’ho mai veduta”.
“Non importa.
Ditemi piuttosto un’ultima cosa “ e qui Santos si sentì improvvisamente turbato
“Chi fu la modella?”.
“Questa è la
cosa più strana: nessuna donna posò veramente per lui. Pure questa donna
stranamente è quasi identica ad una mia lontana parente, una specie di
pronipote, a quei tempi appena adolescente, che vidi solo una volta me che mi
rimase molto impressa per la sua straordinaria bellezza. La somiglianza è
troppo evidente perché egli non abbia pensato a lei; per me si tratta proprio
di lei. A tal punto ne fui convinto, che ricordo non potei fare a meno di
chiederglielo”.
“Ed egli cosa
rispose?”.
“Non ricordo
bene, o meglio, non compresi: dapprima mi sembrò che lo avesse confermato, poi
però mi disse anche di no, che non era lei. Insomma” concluse sorridendo “credo
che ci fosse sotto una qualche sua storia di cui non volle parlare”.
“Ma…e voi
sapete dove abita questa vostra parente? Sì, perché mi piacerebbe conoscerla”
chiese il giovane quasi arrossendo. Il vecchio lo guardò sorpreso, poi gli
indicò un paese piuttosto lontano di lì.
“Là viveva.
Ma, ragazzo mio” aggiunse “sono passati tanti anni!”.
Solo allora
Santos si rese conto che a questo non aveva mai pensato, era pazzesco, eppure
era la realtà: quella donna, se pure viveva ancora, se mai era esistita,
avrebbe anche potuto essere anzianissima, ma nulla di tutto ciò aveva mai
sfiorato la sua mente che si andava ripetendo trasognata: “Una donna così non
può aver fine!”.
Si sentì un
po’ ridicolo quando, recatosi a trovare il suo vecchio professore di scuola con
lo stravagante scopo di avere quella informazione erudita e non riuscendo a
trovare o a creare nella conversazione un angolo per formulare la sua domanda,
non potendone più, la gettò lì d’un tratto:
“Di che cosa
parla il mito di Dafne?”.
Ma questi
solo per un attimo rimase frastornato, perché l’occasione fornitagli di
elargire erudizione e sapere lo solleticava troppo per non far s^ che subito
dimenticasse quella brusca ed assurda interruzione.
“Dafne era
una ninfa. Un giorno Apollo volle farla sua ed ella fuggì. Il dio prese ad
inseguirla, ma quando l’ebbe ghermita, elle, non potendo più sottrarsi, chiese
aiuto alla Terra che la trasformò in un albero di alloro tra le braccia del
nume. Apollo si cinse la fronte con un suo ramo e considerò il lauro simbolo
della poesia. Tale tradizione è giunta fino a noi, ancora oggi la corona di
alloro è considerata l’emblema del trionfo soprattutto nelle arti”.
Santos
rimase a lungo pensieroso, cercando di scavare nel significato di quelle
immagini.
“E che cosa
può significare questo mito?”
“credo il
significato sia da ricercare proprio nel rito dello scambio amoroso: la ninfa
amata che non riama, oppure che semplicemente giuoca, sottraendosi per
civetteria femminile, infrangendo la legge di reciprocità di questo sentimento,
viene punita con la privazione del corpo che ha sdegnato tale dono e che, non
essendone stato degno, dalla condizione umana – anzi, più che umana, perché di
una ninfa si trattava e che per di più osa respingere un dio – viene regredito a
condizione vegetale”.
Santos
rifletteva ma non si sentiva convinto.
“Ma anche il
dio però è stato punito, perché così non può possederla più!” osservò.
“Non direi
questo. Egli è il più bello degli dei, tutte le donne che vuole piò
possederle”.
“Tranne una
però” mormorò il giovane.
“E allora?”
“Questo
limita la sua onnipotenza. In quell’istante, davanti a quella donna, egli cessa
di essere un dio”.
“Ma di questa
unica frustrazione ha potuto ampiamente rifarsi e in più resta l’ammonizione:
guai a colei che osa non amarlo! Però non mi sembrate convinto. Scommetto che
voi siete di quelli che mitizzano la donna e si sottovalutano!” aggiunse
ridendo.
“Può darsi”
rispose Santos. “Sapevate” continuò poi “che la famosa statua del bosco
rappresenta Dafne?”
“No, non
direi che si tratti di una Dafne” lo corresse meditabondo “troppo felice. Certo
una ninfa dei boschi sembrerebbe”.
“E sapevate
che c’è chi afferma che il suo autore sia Orfeo?”
“Andiamo!” fece egli, quasi incollerito “Chi vi ha
detto una simile enormità! E credete che io non lo saprei?”
“Non ne
dubito” tagliò subito corto Santos “E che cosa può significare quella frase
incisa sul piedistallo?”
“Quale
frase?”
“Non importa.
E grazie per la lezione”.
E così Santos
partì per cercare una donna forse già sfatta dagli anni, forse morta, forse mai
esistita.
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post inserito il 08/01/2017
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