Grato m’è il sonno – 1° puntata



Grato m’è il sonno 
romanzo di Maria Luisa Ferrantelli
Pubblicato nel 1989
Copyright  © Maria Luisa Ferrantelli
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Arpa eolica ringrazia l’autrice per il permesso di pubblicazione in 10 puntate
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1°puntata


Grato m’è il sonno

                                          Non ha l’ottimo artista alcun concetto
                                                                      ch’un marmo solo in sé non circoscriva
                                                                      col superchio, e solo a quello arriva
                                                                     la man che ubbidisce all’intelletto.

                                                                     Il mal ch’io fuggo, e ‘l ben ch’io mi prometto 
                                                                     in te , donna leggiadra, altera e diva,
                                                                     tal si nasconde; e perch’io più non viva,
                                                                    contraria ho l’arte al disiato effetto.

                                                                    Amor dunque non ha, né tua beltade
                                                                    o durezza o fortuna o gran disdegno
                                                                   del mio mal colpa, o mio destino o sorte,

                                                                    se dentro del tuo cor morte e pietate
                                                                   porti in un tempo, e che ‘l mio basso ingegno
                                                                   non sappia, ardendo, trarne altro che morte.

                                                           Michelangelo Buonaroti

 “Dimmi, mamma, cosa sono i sogni?”

“Nessuno lo sa, Santos”

“E chi li manda?”
“Forse una divinità, forse siamo noi stessi”
“Allora una parte dell’uomo non conosce l’altra, una parte della vita parla con l’altra e quella non l’ascolta”
“Oh, ma questo può avvenire anche di giorno!”
 “E dimmi, quando è notte, il sole non esiste più?”
“Certo che esiste”
“E dove va?”
“Va in altre terre”
“Allora la notte non esiste, c’è solo per noi…O siamo noi che non esistiamo più?”
“No, anche noi ci siamo sempre, proprio come il sole”
“E dove andiamo?”
“Restiamo qui”
“Questo non è possibile. Io una notte voglio restare sveglio e seguire il sole!”………
 Santos improvvisamente si fermò. Come tacque il frusciare ritmico dei suoi passi sugli sterpi e sulle foglie secche del sentiero, tutto intorno si animò e fece sentire la sua viva presenza: il fremito del querceto, la risata del ruscello, lo sguardo solenne del sole alto, i mille sospiri dei fiori e perfino le radici sprofondate nel terreno quasi un  digrignar di denti, il sognar lieve degli alberi nella carezza del vento e il sonno profondissimo delle pietre. Sempre così incominciava il richiamo, ed egli si sentiva allora come percorso da un brivido religioso di amore e di paura, la sensazione di essere più grande, quasi dilatato, e nello stesso tempo di perdere se stesso. Durava pochi istanti; poi un’ansia lo prendeva e stringeva i pugni e si diceva Devo fare! Devo fare!
 Sedette su una roccia e guardò di nuovo ogni cosa. Ma ormai era già la sua voce ad avere il sopravvento.
 “Cosa ho fatto fino ad oggi? Ho coltivato terre, senza mai giungere a coglierne i frutti, abbandonandole al sole o al gelo; ho fatto all’amore senza mai legarmi a nessuna e concepire il frutto di un amore; ho girato paesi senza mai fermarmi. Qualcosa, una specie di febbre mi divora e continuamente mi strappa alle cose e mi porta lontano”.
 Guardò i semi lievi che il vento portava, i frutti maturi sui rami, le api attorno ai fiori, guardò la terra che nella brulicante umidità pulsava vita.
 “Tutto è movimento, tutto è spinta a realizzare, ed io potrei, come tutti, essere dentro questo processo, lasciare che l’intera natura mi attraversi e mi utilizzi; potrei amare, procreare, produrre, e in fondo vivere per l’umanità intera non è altro che questo; si affanna tanto, ma la realtà del suo esistere non si discosta nella sostanza da quella delle piante e degli animali. Eppure c’è un fare che nell’intera natura è solo dell’uomo: quello che partorito dal suo pensiero, del quale finanche il suo
frutto materializzato non ha la sua patria e dimora su questa terra”.
 Ma se ogni attività che Santos intraprendeva restava interrotta dalla sua febbre di realizzarsi nella creazione artistica, era pur vera che il suo dramma maggiore non era ancora questo, bensì che l’incompiuto venisse a perseguitarlo anche lì: statue abbozzate emergevano dal marmo, altre dalla creta ormai impietrita e screpolata dal tempo, e le loro sagome, i tratti già nitidi e compiuti contrastavano violentemente con la rozzezza inanimata della materia informe in cui affondavano, o meglio, con cui parevano lottare perché essa non li travolgesse completamente. Eppure, non si sa per quale dispetto della natura, ciò che era rimasto interrotto gli appariva quasi sempre potenzialmente molto più bello delle opere condotte a termine; forse, chissà?, perché rispecchiava una sua lotta interiore, la contrapposizione che egli viveva costantemente con la materia che, da strumento espressivo, in lui diventava sempre ostacolo, una specie di destriero focoso che voleva prendergli le redini e, anziché condurlo, scrollarselo di dosso e riconquistare la sua autonomia. Questo sentiva mentre scolpiva, dipingeva o componeva canzoni col suo flauto.
 La verità era che certe volte Santos avrebbe voluto quasi scolpire senza marmo, dipingere senza tela, cantare senza voce, avrebbe voluto strapparsi l’anima intera e trasportarla direttamente, fonderla al creato.
 “Il  canto è in me, i colori e le linee sono in me, non appartengono a questa terra. Cosa ne sanno queste pietre gelide e immobili, perché devo chiedere la vita proprio a loro?”.
 Cinzia giunse alla fonte. Nell’afa estiva del mattino liberò dal pettine il nodo biondo di crespi capelli e, mentre scrollava vivacemente il capo per farli piovere sulle spalle, guardava Santos ridendo con i chiari occhi di rugiada.
 “Vieni qui, Santos! Fa molto caldo oggi, rinfrescati un po’ anche tu!”.
 Solo un attimo durò, a quell’invito, la pura contemplazione di tanta grazia così armonizzata col luogo: ella si era seduta presso la sponda, con le mani teneva stretta fra le gambe la veste leggera che aveva sollevato sulle ginocchia ed aveva immerso nel limpido rivo le caviglie bianchissime. Poi sentì in lui il desiderio gonfiarsi di una vita autonoma, come un’onda che cresce suo malgrado, spinta dal vento, ansiosa di raggiungere la riva e spegnere il suo ansimare. Con respiro via via più frequente percorse dapprima con gli occhi, poi con le mani frementi tutto quel corpo mollemente proteso ad abbandonarsi.
 Quando l’ondata fu passata, egli giaceva accanto a lei, la guardava e si sentiva come svuotato. Di fronte a lei proprio come il mare si sentiva, sensibile ad ogni alito, passivo, in balìa dei venti che lo increspavano lievemente o sollevavano cavalloni. Solo in quegli intervalli di tregua fra un’ondata e l’altra tornava nuovamente ad essere se stesso e ad illudersi che, se voleva, la sua calma non poteva essere turbata, perché in fine, che senso aveva questo, e durava così poco, e a che serviva?… finché non sopraggiungeva una nuova ondata. Ma intanto, in quegli intervalli di quiete, poteva approfittare per osservarla con sguardo freddo, con voluta indifferenza, quasi una sorta di piccola interiore rivincita: era bella, questo sì, molto, ma come tantissime altre, una qualunque, un’estranea, cosa aveva a che fare veramente con lui?; e in quell’attimo in
alcun modo avrebbe potuto turbarlo, fermare il suo pensiero che
scorreva, scorreva con forza e lo portava lontano da lei.
 Eppure non era così e lo sapeva: il morbido corpo di Cinzia (perché di questo sii trattava, si ripeteva con una specie di rabbia non chiaramente indirizzata) era tuttavia più forte del suo pensiero, questo lo faceva impazzire: egli poteva parlare per ore intere, ritrarla, sublimarla, senza che ella lo assecondasse con un cenno o scomponesse qualcosa della sua imperturbabilità, quasi fosse satura in se stessa e nella più potesse aggiungersi alla sua completezza; mentre lei…bastava un suo gesto, la visione fugace del suo bianco polpaccio, un muover d’anca, perché tutto l’universo di Santos si sconvolgesse ed egli per un po’ non fosse più padrone di se stesso. E questa cosa esisteva, aveva una sua vita potente quanto e forse più delle sue idee. “Sei tutta corpo” pensava “tu sei la mia follia”. Ed era la stessa rabbia che provava verso quella materia disumana e muta, a cui pure doveva chiedere la vita perché il suo pensiero prendesse forma: sì, indocile, ostile il corpo di Cinzia, proprio come il marmo delle sue statue, ma, infine, proprio come il suo stesso corpo.
 Aveva distolto lo sguardo da lei ed il suo pensiero vagava già da un po’, ma quel tepore profumato al suo fianco avrebbe finito per riprendere il sopravvento. Si alzò allora d’improvviso:
 “A rivederci, Cinzia, e felice giornata. Scusami, ma ora ho da fare” si congedò. Fare che cosa?, e quasi ancora non le aveva voltato le spalle. Si avviò lentamente con l’intenzione di prendere la via di casa, ma cambiò bruscamente direzione per passare ancora una volta, anche se ciò gli avrebbe di molto allungato la strada, davanti alla statua della dea.
 Sotto la pergola di glicine che ombreggiava la fontana, sorgeva, quasi librandosi nell’aria, con le braccia protese verso il cielo, come volesse raggiungerlo e fosse per volare da un momento all’altro. La veste lieve come un velo le si incollava addosso disegnando tra le pieghe il corpo nudo; una pioggia di foglie tra le chiome scomposte e in cima al capo era posato un usignuolo col becco spalancato nel canto.
 Quando la guardava, Santos sentiva sempre come un brivido, un nodo in gola: sì, era possibile, quella materia dura e gelida aveva potuto accogliere ed esprimere la tenera mollezza di quel corpo, l’anelito del suo petto, il vento nei capelli, e ciò lo commoveva e lo turbava. Ma anche quella donna così misteriosa, la sua identità, lo turbava: sembrava fuggire, pure un sorriso enigmatico, come di serenità, una specie di consapevolezza della propria perfezione, incurvava lievemente gli angoli della bocca, e sotto le palpebre un poco abbassate, pur nel bianco marmo, l’artista era riuscito a dare ai suoi occhi, con un gioco di ombre, uno sguardo profondo e sognante.
 Chi era un tal genio? Santos avrebbe voluto conoscerlo e parlargli. Ma c’era dell’altro: chi era la donna? Sì, perché egli si struggeva contemplandola e aveva finito per convincersi che era lei l’unica di cui fosse innamorato. Però, benché la passione e la curiosità lo divorasse, mentre tentava di immaginare i colori di quella creatura e il suono della sua voce, forse nel più profondo avrebbe avuto timore di incontrarla nella realtà, quasi avesse paura di perderla, mentre ora, in un angolo della sua anima, gli apparteneva.
 Era ancora rapito nella sua contemplazione, quando Cinzia, che lo aveva tacitamente seguito per un po’, proruppe sorridendo:
 “Come eri diverso poco fa! Ora ti saluto” e si allontanò. Santos allora si riscosse e si volse: lei era già lontana, ma la sua voce
ridente, che lo aveva precipitato dal sogno, gli era rimasta nelle orecchie ed ora la sua eco strideva fra le sue fantasie. Gli sembrava in quel momento di leggere nel suo sorriso e nelle sue parole dell’ironia, quasi avesse voluto dire: “Non si può amare senza corpo”, oppure “Non figurarti tanto spirituale!”. In realtà ella, nella sua imperturbabilità e spensieratezza sensuale appariva talmente lontana dai suoi tormentosi problemi; tuttavia, malgrado ciò, con incredibile sintesi, sembrava colpire sempre nel segno. O forse questo non era nelle intenzioni di Cinzia, ma poco importava; era lui che lo stava pensando e dicendo a se stesso e ciò che contava era che ai suoi stessi occhi apparisse debole e ridicolo.
 Si immerse di nuovo nella purezza di quella immagine: spirito e materia, sensualità e castità, immobilità e movimento, fuga e vittoria, espressività e silenzio, tutto essa racchiudeva e conciliava, era l’immagine di quel compiuto che Santos andava sempre inseguendo vanamente. Ed egli intuiva, sentiva oscuramente che quella immagine racchiudeva la soluzione del suo problema, l’enigma della sua vita o addirittura della vita stessa. Forse, chissà?, la chiave era proprio in quella strana frase incisa sul basamento, seminascosta dall’edera; egli la sapeva a mente, pure istintivamente sentì il bisogno di tendere la mano a scostare le foglie per rileggerla, quasi dalla pietra stessa potesse venirgli una illuminazione improvvisa: Insegui la tua notte e incontrerai la luce. E subito al contrario lo colse lo struggente languore di cui da tempo soffriva.
 “Più penso e meno mi sembra di comprendere. Tutti si muovono, sono affaccendati continuamente, ma cosa li spinge? Forse l’angoscia di dare un senso alla propria esistenza. Eppure questo senso non può essere nelle cose che fanno. Tutti agiscono incessantemente, quasi meccanicamente, come se
ciò fosse naturale, proprio come lo è per quell’albero crescere e mandar fuori foglia dopo foglia per poi appassire e perderle ad una ad una; o per quelle api costruire il loro alveare, sempre lo stesso da secoli. Ed io che sento in me una volontà più potente, sono qui inerte”.

 “Salve, maestro!” lo interruppe una fresca voce. Si volse: era uno dei ragazzi che frequentavano la sua scuola di pittura ed arti plastiche.
 “Bella, eh?” fece poi sorridendogli, e Santos trovò quell’intervento goffo e inadeguato del giovane, che dava come un tocco di involontaria ironia alla sua pur sincera ammirazione, una stonatura, quasi un sacrilegio, e dentro di sé non poté fare a meno di irritarsi. Ma in realtà lo infastidiva che quella donna, un angolo stesso del suo cuore, fosse così esposta a qualunque sguardo profano e a qualunque superficiale complimento. Bella, eh?, quasi ammiccandogli, come se la presenza del capolavoro stabilisse una sorta di intimità tra loro. Ma poteva davvero, quel ragazzotto, penetrarlo così profondamente, da condividere l’intesa col suo maestro al punto di volgerla in confidenza?
 “Lo sa che forse forse siamo parenti?” aggiunse compiaciuto, sempre più inopportuno, senza cogliere la freddezza del maestro, che voleva lasciar intendere il suo fastidio ed il desiderio di restar solo. Quel tono, di chi invece decisamente si accinge ad intraprendere una conversazione, per un istante accrebbe il fastidio di Santos, per lasciar posta però subito ad un improvviso trasalimento che lo fece uscire quasi involontariamente dal silenzio.
 “Eh, cosa dici? Parente di chi? Dello scultore?”.
“No!” rise il ragazzo “Ma chissà che il mio avo non ricordi anche questo”.
 “Ma cosa dici, allora, spiegati!” incalzò egli cercando di celare la sua trepidazione.
 “Della donna” rispose il giovane.
 “E’ impossibile!” fece Santos, guardandolo in faccia, quasi istintivamente ed assurdamente cercasse un confronto con quel viso glabro e un po’ rotondo di adolescente e l’impossibilità fosse data proprio da tale accostamento.
 “Oh e perché?” chiese ingenuo questi.
 “Perché quella donna non esiste” rispose Santos, e sentì che la risposta veniva come da una profondità interiore che oltrepassava la formulazione delle parole della sua stessa mente; perché egli al contrario invece aveva sempre sentito che tale donna, in carne ed ossa, doveva pur esistere da qualche parte e che l'avrebbe un giorno raggiunta.
 “Dovete sapere che il mio bisnonno è ancora in vita, ha ben novant’otto anni ed è il più vecchio del paese, le cose che può rievocare lui non le sa più nessuno. Io mi ricordo confusamente di avergli sentito raccontare qualcosa su questa statua…Certo che ci fu una modella e lui la conobbe anche, questo lo ricordo…”.
 “E chi sarebbe questa donna?”.
 “Mah, una contadina del villaggio” fece questi alzando le spalle. Santos provò di nuovo un moto di irritazione, ma nello stesso tempo si sentiva grato, non sapeva se al suo allievo e a qualcosa di imprecisato, ad una misteriosa circostanza che gli era venuta incontro, inviandogli quel ragazzo, quasi messaggero bendato.
 “E dimmi, dove abita il tuo avo?”.
 “La casa in fondo alla via dei faggi, proprio al bivio”.

Copyright  © Maria Luisa Ferrantelli

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post inserito il 01/01/2017

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