IL RITORNO COME FALLIMENTO
di Angelo Gaccione
Appunti personali a proposito di un saggio di Fulvio
Papi
Accanto alla sua attività di filosofo, Fulvio Papi
coltiva da tempo una altrettanta forte passione per la letteratura. Broch,
Roth, Thomas Mann, Svevo, una accanita rilettura di Musil, e di recente i saggi
su Marguerite Yourcenar, Samuel Richardson, Henry Fielding e Cesare Pavese,
compresi nel volumetto dal titolo “Come
specchi del tempo*”.
Di ciascuno di questi autori Papi indaga delle opere
specifiche e ne problematizza alcuni
aspetti. Tutti molto interessanti, ma che attengono, a mio modo di vedere,
molto di più al lavoro letterario degli scrittori, che a quello dei semplici
lettori o della critica. Potrei citare ad esempio l’attenzione che lui rivolge all’happy ending di un’opera, o alla
conoscenza oggettiva “delle
condizioni storiche” colte in tutti i suoi risvolti (politici, sociali,
psicologici, militari, religiosi, ecc.) ineludibili nella costruzione di una
figura storica, anche se poi il narratore, per esigenze proprie del suo fare
artistico, non può rinunciare alla sua soggettività “irriducibile” come la
chiama Papi. E finisce per contaminare l’oggettività storica, con l’invenzione
creativa propria della sua soggettività. Temi questi, assieme agli altri
presenti nei vari saggi, di notevole interesse per chi pratica l’arte della
scrittura, utili ad illuminare qualche crinale scosceso del proprio percorso. Il
tema del ritorno, (νόστος), presente nel
romanzo di Pavese (La luna e i falò)
preso in esame da Papi, e che egli giustamente individua come storia di
fallimento, mi conferma quello che ho sempre pensato: l’emigrazione fa dello
scrittore, di un certo tipo di scrittore, uno sradicato. Egli non mette radici
da nessuna parte e il ritorno non può che deluderlo: il tempo muta
inesorabilmente le persone e le cose, e seppure il suo luogo non è stato del
tutto devastato, tuttavia “il desiderio del ritorno non può suturare l’abisso
del tempo” perché “lo stesso spazio è mutato con il tempo”. Ho potuto
verificare tutto questo su me stesso, ritornando dopo un significativo periodo
di assenza nella mia terra di origine. Ho provato come un senso di vertigine,
come se improvvisamente fossimo diventati estranei, io a lei, lei a me. La
bellezza struggente dei suoi colori strideva col vuoto che il tempo aveva
scavato in me; quel che si perde non si recupera più, come ciò che si cancella
di fisico, fosse pure un albero, uno slargo che la nostra memoria aveva
trattenuto. C’è un terremoto interiore che produce le stesse rovine del
terremoto fisico che abbatte case e cancella luoghi, e rende meno stabile
l’equilibrio psichico. Forse è per questo che i poeti che partono o si
inaridiscono, o cadono vittima di quella “malattia
dei ricordi” (espressione molto cara anche a Papi) da cui finiscono per
restare imprigionati. Se “I ritorni non
sono che inganni del cuore”, come si legge in un famoso romanzo di Piero
Chiara*, e se come Anguilla, il protagonista del romanzo di Pavese di cui
conosciamo solo questo soprannome, non c’è possibilità di ricongiungersi, dopo
essere andato in giro per il mondo, che cosa rimane se non il peso di una
memoria che ci tiene a galla per non sprofondare del tutto? “Capii che quelle stelle non erano le mie”
dice Anguilla tornando, ma il ritorno è un fallimento. È stato così per lungo
tempo anche per me: nessun cielo mi apparteneva e le stelle mi apparivano
ovunque meno lucenti. Poi ho smesso di guardare il cielo.
Note
*Una spina nel cuore, Arnaldo Mondadori Editore.
*Fulvio Papi
Come specchi del tempo
Yourcenar, Richardson, Fielding, Pavese
Ibis edizioni 2016,
pagg. 96 € 8,00.
[Intervento di A. Gaccione - Pubblicato su “Odissea” in Rete nella rubrica “Officina”
sabato 7 gennaio 2017] www.libertariam.blogspot.it
post inserito il 09/01/2017
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