Ma di chi sono, la terra, i frutti della terra, e i frutti della
fatica del lavoro?
Luigi
Pirandello
nato ad Agrigento (Girgenti)
il 28 giugno 1867
Arpa eolica quest’anno sta dedicando diversi
post alla celebrazione dell’anniversario.
Qui di seguito la novella
Tanti anni fa,
a un pittore non si sa donde venuto, egli che viveva da selvaggio sú per le
spalle dei monti, guardiano di mandrie, si era prestato a far da modello per
una pala d'altare, di cui quegli preparava i cartoni e altri studii
preliminari.
Che parte fosse destinato a rappresentare in
quel quadro sacro, non si era neppur curato di sapere: si era lasciato vestire
di strana foggia e atteggiar d'un gesto violento, con una verga in mano. Ma,
poco dopo, consacrata la chiesa nuova, e accorso egli con tutto il popolo alla
prima funzione, vedendosi nella pala effigiato in uno dei giudici che colpivan
Gesú legato alla colonna, s'era messo a gridar furibondo e a piangere e a
strapparsi i capelli, pestando i piedi per terra:
— Levatemi di lí! Son cristiano!
Tratto fuori fra la confusione generale (risa
di quelli che lo avevano ravvisato nella pala e domande e supposizioni
disparate degli altri che non se n'erano accorti), non si era calmato e non
aveva smesso la minaccia di uccidere quel pittore insolente, finché dal vecchio
mansionario della nuova chiesa non aveva ottenuto la promessa d'un ritocco alla
immagine di quel giudeo per modo che ogni somiglianza con lui fosse cancellata.
Non pertanto, il nomignolo di Giudè gli era rimasto; e ora, dopo tant'anni, chiamavasi
Giudè lui stesso. Ma cosí il volto come la persona avevan perduto quell'espressione
di dura fierezza per cui il pittore lo aveva scelto a rappresentar nella pala
quella parte odiosa. Era vecchio ormai il Giudè e non piú buono neppur da
condurre al pascolo le mandrie: viveva di elemosina, senza mai chiederla, o
meglio, chiedendola in un modo suo particolare. Spinto dalla fame, dopo aver
vagato come un cane randagio per le pianure deserte, si appressava a una villa
e al primo contadino in cui s'imbattesse diceva:
— Di' al tuo padrone che c'è l'esattore.
Tutti adesso intendevano e sorridevano, ma la
prima volta che il Giudè usò questa frase per la sua questua dovè spiegarla. E
la spiegò cosí: che noi tutti sulla terra siamo inquilini del Signore, il quale
sarebbe per ciascuno allo stesso modo buon padrone di casa, se molti uomini non
si fossero fatta della terra casa propria, senza volere intendere né
riconoscere che essa dovrebbe invece esser casa comune. Debbono però questi
tali ricordarsi che il Signore è pur padrone di un'altra casa, di là (e il
Giudè aveva additato il cielo), della quale vuol che ciascuno paghi anticipata
qui la pigione. I poveri la pagano coi patimenti quotidiani del freddo e della
fame; basta ai ricchi, per pagarla, che facciano ogni tanto un po' di bene.
Ecco dunque perché egli era pei ricchi l'esattore.
Ottenuta l'elemosina in natura, si
allontanava; e, andando, riconosceva qua e là per la campagna gli alberi che
avrebbero dovuto esser suoi: suoi, perché quell'ulivo, quel ciliegio, quel
nespolo, quel melograno eran nati per lui che tant'anni addietro, passando,
aveva scavato e buttato il seme alla terra; e la terra, ecco, gli aveva dato
l'albero; lo aveva dato a lui… Perché la terra sa forse a chi appartenga?
Ed egli per quegli alberi aveva affetto
paterno: gli parevano i piú belli e i piú rigogliosi di tutta la campagna; e si
fermava ad ammirarli a lungo e scoteva il capo folto di capelli grigi, ricci,
quasi ferruginei. I rami sovraccarichi lo invitavano a cogliere almeno un
frutto, poiché tutti eran suoi (ah, essi lo sapevano bene!) – ecco, e glieli
offrivano… Ma lui, no: non cedeva alla tentazione; sospirando abbassava la mano
che già s'era levata.
Cosí, per le campagne altrui, viveva senza
tetto.
Dormiva in un casale smantellato e
abbandonato; si destava all'alba e si metteva a errar senza meta, per le
solitudini immense e pur piene di tanta vita, in quel silenzio palpitante di
foglie e d'ali, a ora a ora tentato dal trillo d'un uccello che s'allontanava.
Sdrajato per terra, s'immergeva in quel
silenzio e guardava i fili d'erba che si movevano appena, di tanto in tanto, a
un alito d'aura; guardava qualche lucertola che si beava del sole sopra una
pietra, e le farfalle bianche che volitavan sicure in tanta pace.
O perché mai nascevano certe erbe? Non per gli
uomini, certo, né per le bestie, che non ne mangiavano… Nascevano perché Dio le
voleva e la terra le faceva, senza curarsi del dispiacere che recava agli
uomini prepotenti, i quali credono d'aver dominio su lei; tanto è vero che,
strappate, tornava a farle; e lí che nessuno le toccava, esse crescevano senza
fine — come la terra le voleva…
«Dio ha voluto anche me,» il Giudè pensava «e
intanto non ho un palmo di terra in cui mi possa stare, dicendo: è mio. Son
come quest'erbacce, che nessuno vuole nel proprio campo. Solo dov'esse crescono
indisturbate posso stare anch'io. Vuol dire che il padrone non c'è o non se ne
cura.»
Parecchie volte era stato colpito da questa
idea. Conosceva certe terre abbandonate, per cui non passava mai anima viva, e
nelle quali egli, dacché era vivo, cioè per tant'anni che non si ricordava il
numero, aveva sempre veduto quell'erbacce; né mai alcuna traccia, anche
lontana, di coltivazione; né mai alcun segno, anche antico, del dominio di
qualcuno. Quelle terre adunque, da tempo almeno per lui immemorabile,
appartenevano a se stesse, libere di produrre, non quel che gli uomini
vogliono, ma quel che a loro piaceva.
«E se io» pensava il Giudè «da un lembo qui
nel mezzo, che nessuno se n'accorga, strappo le male erbe, e vi butto un pugno
di frumento, non mi darà questa terra un po' di grano? Lo darebbe a me come a
chiunque… Il padrone, ammesso che ci sia, è chiaro che ha sempre rinunziato a
trar da questo podere qualsiasi profitto. Non sarà lo stesso per lui se in un
pezzetto qui in giro, invece di sterpi inutili, crescerà un po' di grano per
me? Egli, queste terre le ha abbandonate, né io me le piglio: farò soltanto che
un breve tratto di esse, almeno per una volta, invece di sterpi inutili produca
grano… Del resto, chi è il padrone?»
Vinto
da questa idea, il Giudè nelle sue questue si mise d'allora in poi a chiedere,
oltre al tozzo di pane consueto, una manatella di frumento.
— O che ha rincarato la pigione padron Dio,
Giudè? — gli domandavano scherzando i fattori delle ville, a cui egli si
presentava da esattore.
Il Giudè, sorridendo umilmente, si stringeva
nelle spalle:
— Se volete…
E intanto che raccoglieva cosí da seminare,
apparecchiava lí, nella solitudine, il terreno – oh, alla meglio, sprovvisto
com'era degli arnesi necessari. Aveva soltanto un logoro marrello, tolto in
prestito, col quale, zappettando, cavò prima via l'erbacce maligne; poi scavò,
scavò quanto piú a fondo gli permise la forza delle povere braccia sfibrate
dagli stenti e dalla vecchiaja: e questo al terreno doveva bastare. Non al suo
desiderio però, che gli faceva seguir con gli occhi invidiando l'opera degli
aratri negli altri campi e i seminatori che gittavano il grano fiduciosi nel
lavoro coscienziosamente fornito. Ah, egli non aveva nemmeno potuto incalcinare
i semi, perché non involpassero: li aveva cosí, quasi alla ventura, consegnati
alle zolle appena appena rimosse…
Vennero le prime acque, e il Giudè, udendo dal
suo covo notturno scrosciar la pioggia, pensò che anche su quel suo lembo di
terra in quel momento pioveva… Poi, con un gaudio che lo fece lagrimare, vide
il grano sbullettare e poi dalla terra umida spuntar timide le prime pipite.
Ah, ecco, ecco, la terra gli dava il grano! era suo! Poi guardò il cielo donde
l'acqua benefica era caduta anche per lui, anche per quel suo primo tesoro; ma
la vista del cielo lo sconsolò: avrebbe voluto vederlo cosí basso da chiudere e
nascondere quel piccolo lembo coltivato, perché nessuno lo scoprisse, lí, tra
quelle erbacce intorno.
E man mano le pipite sfronzarono, accestirono.
E ormai il Giudè non sapeva staccarsi piú da quel pezzetto di terra, nonostante
il freddo acuto e le intemperie: quasi covava con gli occhi quel suo grano; e
nel vedere l'aura avvivare di tremiti le tenere foglioline, tutta l'anima gli
tremava.
Se non che, un giorno di quelli, non si sentí
la forza di sbucare dal casale abbandonato in cui s'era fatto il covo.
Il sole era già alto, e il Giudè, seduto per
terra, con le spalle al muro, le ginocchia abbracciate, guardava innanzi a sé,
stordito ancora dai sogni della notte, e tremava tutto di freddo e i denti gli
battevano. Che era avvenuto? Dov'era il suo campicello? E i granaj dov'erano?
tutti quei granaj pieni, con tanti e tanti misuratori allegri che davan via
frumento, frumento, frumento, cantando e senza togliere con la rasiera il colmo
dello stajo? E quella povera donna che era accorsa con un grembiale bucato,
donde giú tutti i chicchi scorrevano cosí a sgorgo, che la grembiata si votava
prima ch'ella raggiungesse la porta del granajo? Ah, la poverina tornava sempre
indietro, daccapo, disperatamente, urtata, spinta tra la ressa degli altri
poveri accorrenti senza fine, e mai nessun chicco le restava in grembo…
— Date via! date via! — incitava il Giudè i
misuratori. — Cosí mi pago la pigione dell'altra casa del Signore, lassú…
E i granaj non si votavano mai: dalle finestre
in alto, sopra i mucchi addossati alle pareti, il frumento sgorgava, veniva giú
come cascata d'acqua, continuamente, frusciando. E ora, ecco, quel fruscío
continuo nel sogno gli era rimasto nelle orecchie… Ah, la febbre! egli aveva la
febbre, e tremava di freddo.
Si levò in piedi a stento: vacillava… Si
trascinò fuori del casale diruto per ritornare al campicello lontano, ma dopo
un breve tratto di cammino s'accasciò, in un completo abbandonamento di membra.
Si ritrovò dopo alcuni giorni, stupito e
sgomento, su un lettuccio d'ospedale, in un lungo camerone silenzioso.
«Ah, è segno che son morto, se mi hanno accolto qui» pensò il Giudè.
La testa gli pesava come se fosse di piombo, e
non aveva forza neanche d'aprir le pàlpebre. Quel filo d'anima che gli restava
si rincantucciò sotto la superstiziosa paura che il luogo gl'ispirava; ed egli
abbandonò disajutato il vecchio corpo affranto e inerte alle cure dei medici e
degli infermieri, senza neppur domandare che male avesse.
Con gli occhi chiusi, tutto rannicchiato quasi
per schermirsi dai brividi incalzanti della febbre, spingeva il pensiero
lontano lontano, al campicello suo; e lí, sovr'esso, a poco a poco
s'addormentava. Attorno a lui, allora, sentiva e vedeva il grano già accestito
mandar sú sú sú il gambo della spiga… ma troppo alto… non cosí, possibile? ogni
gambo piú alto d'un pioppo? Il Giudè, smaniando, voleva impedir quel rigoglio
dispettoso e inverosimile, ma non poteva: i gambi gli si allungavano da ogni
lato, visibilmente, fino a quella altezza, l'uno dopo l'altro, e a poco a poco
lo seppellivano. Ora, smaniando l'aria, il Giudè si rizzava, ma – o stupore! –
anch'egli era piú alto assai delle spighe… Si guardava attorno smarrito, poi
guardava il cielo, ed ecco la luna, a portata della sua mano: alzava un braccio
e la prendeva e con essa si metteva a falciare. Poi, tutt'a un tratto, il sogno
crollava, e il Giudè si destava di soprassalto.
Vedeva allora in contrapposto venir sú gracile
e pallido e rado il suo grano e i poveri gambi acquattati dalla pioggia o
spezzati dal vento… E sospirava: — L'aratro! ci voleva l'aratro!… — Ché certo
la terra da quel suo logoro marrello non si era neppur sentita vellicare…
Intanto i giorni passavano, ma non le febbri
al Giudè. Aveva perduto la memoria del tempo, e non chiedeva nemmeno in che
stagione si fosse, per paura che gli rispondessero: è finita l'estate.
Si provava a levare un po' il capo dal
guanciale per guardar sopra gli altri letti l'ampia finestra in fondo al
camerone: intravedeva appena il cielo limpido fiammante di sole. Ma forse era
ancor primavera. «Chi sa però:» pensava il Giudè «qualcuno forse, passando di
là, avrà scoperto tra le erbacce il grano, e l'avrà fatto suo… Ma se poi
nessuno lo scopre, non è anche peggio? Quella grazia di Dio si perderà,
aspettando invano sotto il sole la falce. E la terra avrà dato il grano
inutilmente…»
Come Dio volle però (e fu Dio, certo, dietro
tante preghiere), il Giudè poté lasciar l'ospedale – uscir di prigione –
guarito, sui primi del giugno.
Subito volò di lungo al suo campicello; scorse
da lontano il biondeggiar del grano, ma a un tratto sentí mancarsi le gambe,
cascarsi le braccia… Tutt'intorno alla messe quasi miracolosa (tanto era alta e
folta!) correva una siepe; a un canto sorgeva un pagliajo, e un cane, udendo
tra le erbacce oltre la siepe fruscío di passi, si mise a latrare.
Si affacciò alla siepe il contadino di
guardia, con una mano a riparo degli occhi.
— Oh, benvenuto, Giudè! T'aspettavo… Dimmi che
vuoi tu ora qui.
Il Giudè, affranto dalla corsa e dal
cordoglio, si pose a sedere per terra, calandosi pian piano, appoggiato al
lungo bastone.
— Non voglio nulla… — poi disse, rattenendo le
lacrime. — Quieta il tuo cane. Sono venuto soltanto per vedere codesto
miracolo: il grano che t'è nato solo, e cosí bello, da sé…
— E di chi era la terra, Giudè?
— Era di quest'erbacce qui, che non fanno
pane… — rispose il povero vecchio. — Dillo, dillo al tuo padrone…
E rimase a lungo lí, per terra, a guardar
quelle spighe alte e piene, che, mosse dal vento, tentennando, pareva lo
commiserassero.
Luigi Pirandello - Novelle per un anno
Altre novelle già inserite su Arpa eolica
immagine - 1) Seminatore
al tramonto di Vincent Van Gogh 2)
foto da internet
post inserito il 14/05/2017
ho letto il tuo post e mi sono itrovata a leggere questa novella di Pirandello. so che tra le altre sue opere aveva scritto il libro Novelle per un anno. Non avrei mai immaginato di leggere queste pagine e di rimanerne stupefatta. L'ho riletta una seconda volta e la sensazione di stupore continua. E' veramente un tesoro questa novella, vuoi per il significato, vuoi per la bellezza e la tranquillità con cui si leggono queste pagine. Tranquillità che a volte rasenta il sublime. Grazie framcesco
RispondiEliminaSono lieto che ti sia piaciuta - ciao
Elimina