Quello che può accadere a un prete che perde la
fede, lo trovate in questa novella di Pirandello
LA FEDE
Luigi
Pirandello
nato ad Agrigento (Girgenti)
il 28 giugno 1867
Arpa eolica quest’anno sta dedicando diversi
post alla celebrazione dell’anniversario. Qui di seguito la novella
In
quell'umile cameretta di prete piena di luce e di pace, coi vecchi mattoni di
Valenza che qua e là avevano perduto lo smalto e sui quali si allungava quieto
e vaporante in un pulviscolo d'oro il rettangolo di sole della finestra con
l'ombra precisa delle tendine trapunte e lí come stampate e perfino quella
della gabbiola verde che pendeva dal palchetto col canarino che vi saltellava
dentro, un odore di pane tratto ora dal forno giú nel cortiletto era venuto ad
alitare caldo e a fondersi con quello umido dell'incenso della chiesetta vicina
e quello acuto dei mazzetti di spigo tra la biancheria dell'antico canterano.
Pareva che ormai non potesse avvenire piú
nulla in quella cameretta. Immobile, quella luce di sole; immobile, quella
pace; come, ad affacciarsi alla finestra, immobili giú tra i ciottoli grigi del
cortiletto i fili di erba, i fili di paglia caduti dalla mangiatoja sotto il
tettuccio in un angolo, dalle tegole sanguigne e coi tanti sassolini scivolati
dalla ripa che si stendeva scabra lassú.
Dentro, le piccole antiche sedie verniciate di
nero, pulite pulite, di qua e di là dal canterano, avevano tutte una crocettina
argentata sulla spalliera, che dava loro un'aria di monacelle attempate, contente
di starsene lí ben custodite, al riparo, non toccate mai da nessuno; e con
piacere pareva stessero a guardare il modesto lettino di ferro del prete, che
aveva a capezzale, su la parete imbiancata, una croce nera col vecchio
Crocefisso d'avorio, gracile e ingiallito.
Ma soprattutto un grosso Bambino Gesú di cera
in un cestello imbottito di seta celeste, sul canterano, riparato dalle mosche
da un tenue velo anche esso celeste, pareva profittasse del silenzio, in quella
luce di sole, per dormire con una manina sotto la guancia paffuta il suo roseo
sonno tra quegli odori misti d'incenso, di spigo e di caldo pane di casa.
Dormiva anche, su la poltroncina di juta a piè
del letto, col capo calvo, incartapecorito, reclinato indietro penosamente
sulla spalliera, don Pietro. Ma era un sonno ben diverso, il suo. Sonno a bocca
aperta, di vecchio stanco e malato. Le palpebre esili pareva non avessero piú
forza neanche di chiudersi sui duri globi dolenti degli occhi appannati. Le
narici s'affilavano nello stento sibilante del respiro irregolare che palesava
l'infermità del cuore.
Il viso giallo, scavato, aguzzo, aveva assunto
in quel sonno, e pareva a tradimento, un'espressione cattiva e sguajata, come
se, nella momentanea assenza, il corpo volesse vendicarsi dello spirito che per
tanti anni con l'austera volontà lo aveva martoriato e ridotto in servitú, cosí
disperatamente estenuato e miserabile. Con quello sguajato abbandono, con quel
filo di bava che pendeva dal labbro cadente, voleva dimostrare che non ne poteva
piú. E quasi oscenamente rappresentava la sua sofferenza di bestia.
Don Angelino, entrato di furia nella
cameretta, s'era subito arrestato e poi era venuto avanti in punta di piedi.
Ora da una decina di minuti stava a contemplare il dormente, in silenzio, ma
con un'angoscia che di punto in punto, esasperandosi, gli si cangiava in
rabbia; per cui apriva e serrava le mani fino ad affondarsi le unghie nella
carne. Avrebbe voluto gridare per svegliarlo:
— Ho deciso, don Pietro: mi spoglio!
Ma si sforzava di trattenere perfino il
respiro per paura che, svegliandosi, quel santo vecchio se lo trovasse davanti
all'improvviso con quell'angoscia rabbiosa che certo doveva trasparirgli dagli
occhi e da tutto il viso disgustato; e anzi aveva la tentazione di far saltare
con una manata fuori della finestra quella gabbiola che pendeva dal palchetto,
tanta irritazione gli cagionava, nella paura che il vecchio si svegliasse, il
raspío delle zampine di quel canarino su lo zinco del fondo.
Il giorno avanti, per piú di quattr'ore,
andando sú e giú per quella cameretta, dimenandosi, storcendosi tutto, come per
staccare e respingere dal contatto col suo corpicciuolo ribelle l'abito talare,
e movendo sott'esso le gambe come se volesse prenderlo a calci, aveva discusso
accanitamente con don Pietro sulla risoluzione d'abbandonare il sacerdozio, non
perché avesse perduto la fede, no, ma perché con gli studii e la meditazione
era sinceramente convinto d'averne acquistata un'altra piú viva e piú libera,
per cui ormai non poteva accettare né sopportare i dommi, i vincoli, le
mortificazioni che l'antica gli imponeva. La discussione s'era fatta, da parte
sua soltanto, sempre piú violenta,
non tanto per le risposte che gli aveva dato don Pietro, quanto per un dispetto
man mano crescente contro se stesso, per il bisogno che aveva sentito,
invincibile e assurdo, d'andarsi a confidare con quel santo vecchio, già suo
primo precettore e poi confessore per tanti anni, pur riconoscendolo incapace
d'intendere i suoi tormenti, la sua angoscia, la sua disperazione.
E infatti don Pietro lo aveva lasciato
sfogare, socchiudendo ogni tanto gli occhi e accennando con le labbra bianche
un lieve sorrisino, a cui non parevano neppure piú adatte quelle sue labbra, un
sorrisino bonariamente ironico, o mormorando, senza sdegno, con indulgenza:
— Vanità… vanità…
Un'altra fede? Ma quale, se non ce n'è che
una? Piú viva? piú libera? Ecco appunto dov'era la vanità; e se ne sarebbe
accorto bene quando, caduto quell'impeto giovanile, spento quel fervore diabolico,
intepidito il sangue nelle vene, non avrebbe piú avuto tutto quel fuoco negli
occhietti arditi e, coi capelli canuti o calvo, non sarebbe stato piú cosí
bellino e fiero. Insomma, lo aveva trattato come un ragazzo, ecco, un buon
ragazzo che sicuramente non avrebbe fatto lo scandalo che minacciava, anche in
considerazione del cordoglio che avrebbe cagionato alla sua vecchia mamma, che
aveva fatto tanti sacrifizii per lui.
E veramente, al ricordo della mamma, di nuovo
ora don Angelino si sentí salire le lagrime agli occhi. Ma intanto, proprio per
lei, proprio per la sua vecchia mamma era venuto a quella risoluzione; per non
ingannarla piú; e anche per lo strazio che gli dava il vedersi venerato da lei
come un piccolo santo. Che crudeltà, che crudeltà di spettacolo, quel sonno di
vecchio! Era pure nella miseria infinita di quel corpo stremato in abbandono la
dimostrazione piú chiara delle verità nuove che gli s'erano rivelate.
Ma in quel punto si schiuse l'uscio della
cameretta ed entrò la vecchia sorella di don Pietro, piccola, cerea, vestita di
nero, con un fazzoletto nero di lana in capo, piú curva e piú tremula del
fratello. Parve a don Angelino che – chiamata dalle sue lagrime – entrasse
nella cameretta la sua mamma, piccola, cerea e vestita di nero come quella. E
alzò gli occhi a guardarla, quasi con sgomento, senza comprendere in prima il
cenno con cui gli domandava:
— Che fa, dorme?
Don Angelino fece di sí col capo.
— E tu perché piangi?
Ma ecco che il vecchio schiude gli occhi
imbambolati e con la bocca ancora aperta solleva il capo dalla spalliera della
poltroncina.
— Ah, tu Angelino? che c'è?
La sorella gli s'accostò e, curvandosi sulla
poltrona, gli disse piano qualche parola all'orecchio. Allora don Pietro si
alzò a stento e, strascicando i piedi, venne a posare una mano sulla spalla di
don Angelino, e gli domandò:
— Vuoi farmi una grazia, figliuolo
mio? È arrivata dalla campagna una povera vecchia, che chiede di me. Vedi che
mi reggo appena in piedi. Vorresti andare in vece mia? È giú in sagrestia. Puoi
scendere di qua, dalla scaletta interna. Va', va', che tu sei sempre il mio
buon figliuolo. E Dio ti benedica!
Don Angelino, senza dir nulla, andò. Forse non
aveva neanche compreso bene. Per la scaletta interna della cura, buja,
angustissima, a chiocciola, si fermò; appoggiò il capo alla mano che,
scendendo, faceva scorrere lungo il muro, e si rimise a piangere, come un
bambino. Un pianto che gli bruciava gli occhi e lo strozzava. Pianto
d'avvilimento, pianto di rabbia e di pietà insieme. Quando alla fine giunse
alla sagrestia, si sentí improvvisamente come alienato da tutto. La sagrestia
gli parve un'altra, come se vi entrasse per la prima volta. Frigida, squallida
e luminosa. E trovandovi seduta la vecchia, quasi non comprese che cosa vi
stesse ad aspettare, e quasi non gli parve vera.
Era una decrepita contadina, tutta infagottata
e lercia, dalle pàlpebre sanguigne orribilmente arrovesciate. Biasciando,
faceva di continuo balzare il mento aguzzo fin sotto il naso. Reggeva in una
mano due galletti per le zampe, e mostrava nel palmo dell'altra mano tre lire
d'argento, chi sa da quanto tempo conservate. Per terra, davanti ai piedi
imbarcati in due logore enormi scarpacce da uomo, aveva una sudicia bisaccia
piena di mandorle secche e di noci.
Don Angelino la guatò con ribrezzo.
— Che volete?
La vecchia, sforzandosi di sbirciarlo,
barbugliò qualcosa con la lingua imbrogliata entro le gote flosce e cave, tra
le gengive sdentate.
— Come dite? Non sento. Vi chiamate zia Croce?
Sí, zia Croce. Era la zia Croce. Don Pietro la
conosceva bene. La zia Croce Scoma; che il marito le era morto tant'anni fa,
nel fiume di Naro, annegato. Veniva a piedi, con quella bisaccia sulle spalle,
dalle pianure del Cannatello. Piú di sette miglia di cammino. E con
quell'offerta di due galletti e di quella bisaccia di mandorle e di noci e con
le tre lire della messa doveva placare (don Pietro lo sapeva) San Calògero, il
santo di tutte le grazie, che le aveva fatto guarire il figlio d'una malattia
mortale. Appena guarito, però, quel figlio se n'era andato in America. Le aveva
promesso che di là le avrebbe scritto e mandato ogni mese tanto da mantenersi.
Erano passati sedici mesi; non ne aveva piú
notizia; non sapeva neppure se fosse vivo o morto. Lo avesse almeno saputo
vivo, pazienza per lei, se non le mandava niente. Neanche un rigo di lettera!
Niente. Ma ora tutti in campagna le avevano detto che questo dipendeva perché
lei, appena guarito il figlio, non aveva adempiuto il voto a San Calògero. E
certo doveva essere cosí: lo riconosceva anche lei. Il voto però non lo aveva
adempiuto (don Pietro lo sapeva) perché s'era spogliata di tutto per quella
malattia del figlio e le erano rimasti appena gli occhi per piangere: piangere
sangue! ecco, sangue! Poi, andato via il figlio, vecchia com'era e senz'ajuto
di nessuno, come trovare da mettere insieme l'offerta e quelle tre lire della
messa, se guadagnava appena tanto ogni giorno da non morire di fame? Sedici mesi
le ci eran voluti, e con quali stenti, Dio solo lo sapeva! Ma ora, ecco qua i
due galletti, ed ecco le tre lire e le mandorle e le noci. San Calògero
misericordioso si sarebbe placato e tra poco, senza dubbio, le sarebbe arrivata
dall'America la notizia che il figlio era vivo e prosperava.
Don Angelino, mentre la vecchia parlava cosí,
andava sú e giú per la sagrestia, volgendo di qua e di là occhiate feroci e
aprendo e chiudendo le mani, perché aveva la tentazione d'afferrare per le
spalle quella vecchia e scrollarla furiosamente, urlandole in faccia:
— Questa è la tua fede?
Ma no: altri, altri, non quella povera
vecchia; altri, i suoi colleghi sacerdoti avrebbe voluto afferrare per le
spalle e scrollare, i suoi colleghi sacerdoti che tenevano in quell'abiezione
di fede tanta povera gente, e su quell'abiezione facevano bottega. Ah Dio, come
potevano prendersi per una messa le tre lire di quella vecchia, i galletti, le
mandorle e le noci?
— Riprendete codesta bisaccia e
andatevene! — le gridò, tutto fremente.
Quella lo guardò, sbalordita. — Potete
andarvene, ve lo dico io! — aggiunse don Angelino, infuriandosi vieppiú. — San
Calògero non ha bisogno né di galletti né di fichi secchi! Se vostro figlio ha
da scrivervi, state sicura che vi scriverà. Quanto alla messa, vi dico che don
Pietro è malato. Andatevene! andatevene!
Come intronata da quelle parole furiose, la
vecchia gli domandò:
— Ma che dice? Non ha capito che
questo è un voto? È un voto!
E c'era nella parola, pur ferma, un tale
sbalordimento per l'incomprensione di lui, quasi incredibile, che don Angelino
fu costretto a fermarvi l'attenzione. Pensò ch'era lí in vece di don Pietro, e
si frenò. Con parole meno furiose cercò di persuadere la vecchia a riportarsi i
galletti e le mandorle e le noci, e le disse che, quanto alla messa, ecco, se
proprio la voleva, magari gliel'avrebbe detta lui, invece di don Pietro, ma a
patto che lei si tenesse le tre lire.
La vecchia tornò a guardarlo, quasi atterrita,
e ripeté:
— Ma come! Che dice? E allora che voto è? Se
non do quello che ho promesso, che vale? Ma scusi, a chi parlo? Non parlo forse
a un sacerdote? E perché allora mi tratta cosí? O che forse crede che non do a
San Calò- gero miracoloso con tutto il cuore quello che gli ho promesso? Oh
Dio! oh Dio! Forse perché le ho parlato di quanto ho penato per raccoglierlo?
E cosí dicendo, si mise a piangere
perdutamente, con quegli orribili occhi insanguati.
Commosso e pieno di rimorso per quel pianto,
don Angelino si pentí della sua durezza, sopraffatto all'improvviso da un
rispetto, che quasi lo avviliva di vergogna, per quella vecchia che piangeva
innanzi a lui per la sua fede offesa. Le s'accostò, la confortò, le disse che
non aveva pensato quello che lei sospettava, e che lasciasse lí tutto; anche le
tre lire, sí; e intanto entrasse in chiesa, che or ora le avrebbe detto la
messa.
Chiamò il sagrestano; corse al lavabo; e
mentre quello lo ajutava a pararsi, pensò che avrebbe trovato modo di ridare
alla vecchia, dopo la messa, le tre lire e i galletti e quell'altra offerta
della bisaccia. Ma ecco, questa carità perché avesse il valore che potesse
renderla accetta a quella povera vecchia, non richiedeva forse qualcosa ch'egli
non sentiva piú d'avere in sé? Che carità sarebbe stata il prezzo d'una messa,
se per tutti gli stenti e i sacrifizii durati da quella vecchia per adempiere
il voto, egli non avesse celebrato quella messa col piú sincero e acceso
fervore? Una finzione indegna, per una elemosina di tre lire?
E don Angelino, già parato, col calice in
mano, si fermò un istante, incerto e oppresso d'angoscia, su la soglia della
sagrestia a guardare nella chiesetta deserta; se gli conveniva, cosí senza
fede, salire all'altare. Ma vide davanti a quell'altare prosternata con la
fronte a terra la vecchia, e si sentí come da un respiro non suo sollevare
tutto il petto, e fendere la schiena da un brivido nuovo. O perché se l'era
immaginata bella e radiosa come un sole, finora, la fede? Eccola lí, eccola lí,
nella miseria di quel dolore inginocchiato, nella squallida angustia di quella
paura prosternata, la fede!
E don Angelino salí come sospinto all'altare,
esaltato di tanta carità, che le mani gli tremavano e tutta l'anima gli
tremava, come la prima volta che vi si era accostato.
E per quella fede pregò, a occhi chiusi,
entrando nell'anima di quella vecchia come in un oscuro e angusto tempio,
dov'essa ardeva; pregò il Dio di quel tempio, qual esso era, quale poteva
essere: unico bene, comunque, conforto unico per quella miseria.
E finita la messa, si tenne l'offerta e le tre
lire, per non scemare con una piccola carità la carità grande di quella fede.
Luigi Pirandello - Novelle per un anno
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post inserito il 21/05/2017
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