“Filo d’aria”
Pirandello in
questa novella dipinge con leggerezza uno strano complotto …
Luigi Pirandello
nato ad
Agrigento (Girgenti)
il 28 giugno
1867
Arpa eolica quest’anno sta dedicando diversi
post alla celebrazione dell’anniversario.
FILO D'ARIA
Sfavillío
d'occhi, di capelli biondi, di braccini, di gambette nude, impeto di riso che,
frenato in gola, scatta in gridi brevi, acuti – quella furietta di Tittí entrò,
s'avventò al balcone della stanza per aprir la vetrata.
Arrivò appena a girar la maniglia: un ruglio
aspro, roco, come di belva sorpresa nel giaccio, l'arrestò di botto, la fece
voltare, atterrita, a guardar nella stanza.
Bujo.
Gli scuri del balcone erano rimasti accostati.
Abbagliata ancora dalla luce da cui veniva, non vide; sentí spaventosamente in
quel bujo la presenza del nonno sul seggiolone: immane ingombro affardellato di
guanciali, di scialli grigi a scacchi, di coperte aspre pelose; tanfo di
vecchiaja tumida e sfatta, nell'inerzia della paralisi.
Ma non quella presenza la atterriva. La atterriva il fatto, che avesse
potuto dimenticare per un momento che lí in quel bujo degli scuri sempre
accostati, ci fosse il nonno e che ella avesse potuto trasgredire, senza punto
pensarci, all'ordine severissimo dei genitori, da tanto tempo espresso e sempre
osservato da tutti, di non entrare cioè in quella stanza se non dopo aver
picchiato all'uscio e chiestane licenza (come si dice?): — Permetti nonnino? — ecco, cosí, e poi pian pianino, in punta di
piedi, senza fare il minimo rumore.
Quel
primo impeto di riso sull'entrare le smorí subito in un ansito, prossimo a
ingrossarsi in singhiozzi.
Quatta quatta, allora, la bimba tremante e in
punta di piedi, non supponendo che il vecchio abituato a quella penombra cupa,
la vedesse; credendosi non veduta, s'avviò verso l'uscio. Stava per toccar la
soglia, allorché il nonno la chiamò a sé con un «Qua!» imperioso e duro.
La bimba s'accostò, ancora in punta di piedi,
sospesa, sbigottita, trattenendo il respiro. Cominciava adesso a discernere
anche lei nella penombra. Intravide i due occhi aguzzi, cattivi, del nonno e
subito abbassò i suoi.
In quegli occhi, entro le borse enfiate
acquose delle palpebre, la cui rossedine scialba faceva pensare con ribrezzo al
contatto viscido d'una tarantola, pareva si fosse raccolta, vigilante in un
assiduo terrore e intensa d'astio muto e feroce, l'anima del vecchio cacciata
da tutto il resto del corpo già invaso e reso immobile dalla morte.
Soltanto, ma proprio appena, egli poteva
ancora tentare di muovere una mano, la sinistra, dopo essersela guardata a
lungo, con quegli occhi, quasi a infonderle il movimento. Lo sforzo di volontà,
arrivato al polso, riusciva a stento a sollevare un poco dalle coperte quella
mano; ma durava un attimo; la mano ricadeva inerte.
Il vecchio s'ostinava di continuo in
quell'esercizio di volontà, perché quel lieve moto momentaneo, ch'egli poteva
ancor trarre dal corpo, era per lui la vita, tutta quanta la vita, in cui gli
altri si movevano liberamente, a cui gli altri partecipavano interi, a cui
ancora poteva partecipare anche lui, ma ecco: per quel tanto e non piú.
— Perché… il balcone?… — barbugliò con la
lingua imbrogliata, alla nipotina.
Questa non rispose. Seguitava a tremare. Ma in
quel tremito il vecchio avvertí subito qualcosa di nuovo. Avvertí che non era
quel solito tremito di paura, a stento represso dalla piccina, ogni qual volta
il padre o la madre la costringevano ad accostarsi a lui. C'era la paura, ma
c'era anche qualcos'altro, sotto, soffocato dalla paura per quel suo aspro,
improvviso richiamo: qualcos'altro, per cui il tremito di tutta la bambina
diveniva fremito. Un fremito strano.
— Che hai? — le domandò. La piccina, osando
appena alzar gli occhi, rispose:
— Nulla. Ma anche nella voce, anche nell'alito
della bimba, ora, il vecchio avvertí qualcosa d'insolito. E ripeté con piú
astio:
— Che hai? Uno scoppio di singhiozzi. E subito
dopo la piccina si buttò a terra, convulsa, gridando e dibattendosi tra quei
singhiozzi, con una violenza e una furia, che tanto piú oppressero e irritarono
il vecchio, in quanto anch'esse gli parvero insolite.
Accorse nella stanza la nuora, gridando:
— Oh Dio, Tittí, ch'è stato? Ma come? qua? che
t'è preso? Sú… sú… ferma! Sú, con mamma tua… Come sei entrata qui? Che dici?
Cattivo? Chi? Ah… Nonno cattivo? Tu, cattiva… Nonno, nonno, che ti vuol tanto
bene… Ma che è stato?
Il vecchio, a cui fu rivolta l'ultima domanda,
guatò feroce la bocca rossa ridente della nuora, poi il bel ciuffo di capelli
biondo-dorati, che la piccina le scompigliava su la fronte con una mano,
dibattendosi ora in braccio a lei, e facendo impeto per costringerla a uscir
subito da quella stanza.
— Tittí, ahi! i miei capelli… Dio, Dio… me li
strappi tutti… uh… tutti i capelli di mamma, cattivona! Hai visto? Guarda…
tutti i capelli di mamma tra le dita… i capelli di mamma tua… guarda, guarda…
E di tra le dita aperte della manina trasse
uno e poi un altro e poi un altro filo d'oro, ripetendo:
— Guarda… guarda… guarda… La bimbetta, subito
impressionata, che davvero avesse strappati tutti i capelli di mamma, si voltò
a guardarsi la manina con gli occhi pieni di lagrime. Non vedendo nulla, e
udendo invece una risata larga, allegra, della mamma, diventò di nuovo furente,
piú furente, e la costrinse a scappar via dalla stanza.
Il
vecchio ansimava forte. Una domanda gli gorgogliava dentro, inasprendogli
l'astio di punto in punto.
— Ma che hanno? che hanno?
Anche negli occhi, anche nella voce, anche in quella risata della nuora,
nel gesto con cui dai ditini della bimba aveva tratto i capelli strappati,
prima uno e poi un altro e poi un altro, aveva avvertito alcunché d'insolito,
di straordinario.
No, non erano, né la bimba né la nuora, come tutti gli altri giorni. Che
avevano?
E l'astio gli crebbe maggiormente, allorché, chinando gli occhi sulla
coperta stesa sulle gambe, vi avvistò uno di quei capelli della nuora, che,
forse spinto nell'aria mossa dalla risata, era venuto lieve lieve a posarsi lí,
su le sue gambe morte.
S'accaní a lungo allora a sospingere la mano su quelle gambe per
accostarla a poco a poco, a piccoli sbalzi, a quel capello, che gli era odioso
come uno scherno. E affannato in questo sforzo che, già protratto invano per
una mezz'ora, lo aveva stremato, lo trovò il figliuolo, il quale ogni mattina,
prima d'uscir di casa per i suoi affari, si recava in camera di lui a
salutarlo.
— Buon giorno, babbo!
Il vecchio levò il capo. Uno sguardo opaco e
torbido, di stupore pauroso, gli dilatava gli occhi. Anche il figlio?
Questi credette che il padre lo guardasse cosí
per fargli intendere che s'era avuto a male della disubbidienza della nipotina,
e s'affrettò a dirgli:
— Quel diavoletto, è vero? t'ha disturbato.
Senti? piange ancora di là… L'ho sgridata, l'ho sgridata. Addio, papà. Ho
fretta. A piú tardi eh? Or ora verrà la Nerina.
E se n'andò.
Il vecchio lo seguí con gli occhi, ancor pieni di stupore e di paura,
fino all'uscio.
Anche lui, il figlio! Non gli aveva detto mai con quel tono:
— Buon giorno, babbo! —. Perché? Che sperava? S'erano
tutti accordati contro di lui? Che era avvenuto? Quella bimba, entrata
dapprima, tutta sussultante… poi la madre, con quella risata… per i suoi
capelli strappati… ora il figlio, anche il figlio con quell'allegro: — Buon giorno, babbo!
Qualche cosa era accaduta, o doveva accadere
quel giorno, che volevano tenergli nascosta. Ma che cosa?
S'erano appropriato il mondo, figlio, nuora, nipotina; il mondo creato
da lui, in cui li aveva messi. Non solo; ma anche il tempo s'erano appropriati,
come se ancora nel tempo non ci fosse anche lui! Come se non fosse anche suo,
il tempo, non lo vedesse, non lo respirasse, non lo pensasse anche lui! Egli
respirava ancora, vedeva tutto e piú, piú di loro vedeva, e pensava tutto!
Un guazzabuglio d'immagini, di ricordi, come in un balenío d'uragano,
gli tumultuava nello spirito. La Plata, le pampas;
i paduli salsugginosi dei fiumi perduti, gli armenti innumerevoli scalpitanti,
belanti, annitrenti, muglianti. Là, dal nulla, in quarantacinque anni, aveva
edificato la sua fortuna, avvalendosi d'ogni mezzo, d'ogni arte, carpendo il
momento o preparando e covando con lunga astuzia le insidie: prima guardiano
d'armenti, poi colono, poi addetto ai grandi appalti di linee ferroviarie, poi
costruttore. Tornato in Italia, dopo i primi quindici anni, aveva preso moglie,
e subito dopo la nascita di quell'unico figlio, era ritornato laggiú, solo. Gli
era morta la moglie, senza ch'egli l'avesse piú riveduta; il figliuolo,
affidato ai parenti materni, gli era cresciuto senza che egli lo conoscesse. Quattr'anni
addietro era rimpatriato infermo, quasi moribondo: orribilmente gonfio dall'idropisia,
ossidate le arterie, rovinato il rene, rovinato il cuore. Ma non s'era dato per
vinto: pur cosí, coi giorni, forse con le ore contate, aveva voluto comperare a
Roma alcuni terreni per nuove costruzioni, e subito, aveva cominciato i lavori
facendosi trasportare su una sedia a ruote nei cantieri, per vivere in mezzo
agli operai, nel trambusto dell'opera: scabro come una roccia, tumefatto,
enorme: di quindici giorni in quindici giorni s'era fatto cavar dal ventre il
siero a litri, e via di nuovo tra i lavori, finché un colpo d'apoplessia, due
anni fa, non lo aveva fulminato, là su quella sedia, pur senza finirlo. La
grazia di morir su la breccia non gli era stata concessa. Da due anni perso in
tutto il corpo, si macerava nell'attesa dell'ultima fine, pieno d'astio per
quel figlio tanto diverso da lui, a lui quasi sconosciuto, che, senza bisogno,
liquidati i lavori e investita in rendita l'ingente ricchezza paterna,
seguitava nelle sue modeste occupazioni legali, quasi per negare a lui ogni
soddisfazione e vendicar la madre e se stesso del lungo abbandono.
Nessuna comunione di vita, di pensieri, di sentimenti con quel figlio.
Egli lo odiava, sí, e odiava quella nuora e quella bimba; sí, sí, li odiava, li
odiava perché lo lasciavano fuori della loro vita e neanche… e neanche volevan
dirgli che cosa era accaduto quel giorno, per cui tutti e tre gli apparivano
cosí diversi dal solito.
Grosse lagrime gli stillarono dagli occhi. Dimentico affatto di ciò che
per tanti anni era stato, s'abbandonò al pianto come un bambino.
Di quel pianto, Nerina, la servetta, non fece alcun caso, quando poco
dopo entrò per custodirlo. Era pieno d'acqua, il vecchio: niente di male, se ne
buttava un po' dagli occhi. – E, cosí pensando, gli asciugò con poco garbo la
faccia; poi prese la ciotola del latte, v'intinse una prima savojarda e
cominciò a imboccarlo.
— Mangi, mangi. Egli mangiò, ma spiando
sottecchi la servetta. A un certo punto, la intese sospirare, ma non di
stanchezza, né di noja.
Alzò subito gli occhi a guatarla in viso. Ecco: stava per trarre un
altro sospiro, quella smorfiosa. Vedendosi guardata, invece di lasciarlo
andare, ora lo soffiava per le nari, scrollando il capo, come stizzita. E
perché s'era fatta cosí, a un tratto, rossa? Che aveva anche lei, quel giorno?
Tutti, tutti, dunque, avevano qualche cosa
d'insolito, quel giorno? Non volle piú mangiare.
— Che hai? — domandò anche a lei, con ira.
— Io? che ho? — fece la servetta, stordita
dalla domanda.
— Tu… tutti… che è? che avete?
— Ma nulla… io non so… che cosa mi vede?
— Sospiri!
— Io? ho sospirato? Ma no! O forse, senza volerlo. Non ho proprio nulla,
da sospirare.
E rise.
— Perché ridi cosí?
— Come rido? Rido perché… perché lei dice che ho sospirato.
E seguitò a ridere piú forte, irrefrenabilmente.
— Vattene! — le gridò allora il vecchio.
Sul tardi, quando venne il medico per la visita consueta e rientrarono
nella camera la nuora, il figlio, la nipotina, il sospetto covato tutto il
giorno, anche durante il sonno, che qualcosa fosse avvenuto, che tutti gli
volessero tener nascosto, diventò certezza; chiara, lampante.
Erano tutti d'accordo. Parlavano davanti a lui di cose aliene, per
distrar la sua attenzione; ma l'intesa segreta traspariva evidentissima dai
loro sguardi. Non s'erano mai guardati cosí tra loro! I gesti, la voce, i
sorrisi non s'accordavano affatto con ciò che dicevano. Tutto quel fervore di
discussione per le parrucche, per le parrucche che tornavan di moda!
— Ma verdi, scusi? verdi, violette? — gridava
la nuora, tutta vermiglia, con una collera finta, tanto finta che non riusciva
a impedire alla bocca di ridere.
Rideva per conto suo, quella bocca. E da sé le mani si levavano a
carezzare i capelli, come se per sé i capelli volessero la carezza di quelle
mani.
— Capisco, capisco… — rispondeva il medico, con la beatitudine dipinta
in tutto il faccione di luna piena. — Quando si hanno i suoi capelli, signora
mia, nasconderli sotto una parrucca sarebbe un peccato.
Il
vecchio tratteneva ormai a stento il furore. Avrebbe voluto cacciarli via tutti
dalla stanza con un urlo di belva. Ma appena il medico si licenziò e la nuora
con la bambina per mano si recò ad accompagnarlo fino alla porta, il furore
scoppiò sul figlio rimasto solo con lui. Lo investí con la stessa domanda
rivolta invano alla nipotina, alla servetta:
— Che avete? perché siete tutti cosí oggi? che è avvenuto? che mi
nascondete?
— Ma nulla, babbo! Che vuoi che ti si nasconda? — rispose il figlio,
stupito, afflitto. — Siamo… non so, come siamo sempre stati.
— Non è vero! Avete qualche cosa di nuovo: io lo vedo! io lo sento! Ti
pare che non veda nulla, che non senta nulla, perché sono cosí?
— Ma io non so proprio, babbo, che cosa tu veda di nuovo in noi. Non è
avvenuto nulla, te l'ho giurato, torno a giurartelo! Via, via, sta' tranquillo!
Il vecchio si calmò alquanto, per l'accento di sincerità del figliuolo,
ma non rimase convinto. Che c'era qualcosa di nuovo, era indubitabile. Lo
vedeva, lo sentiva in loro.
Ma che cosa?
La risposta, quand'egli restò solo nella stanza, gli venne tutt'a un
tratto dal balcone, silenziosamente.
Rimasto dalla mattina con la maniglia girata dalla bimba, ora, nella
prima sera, ecco quel balcone si schiuse pian piano, un poco, a un filo d'aria.
Il vecchio, dapprima, non se n'accorse; ma sentí tutta la stanza empirsi
d'un delizioso inebriante profumo che saliva dai giardini che circondavano la
casa. Si volse, e vide una striscia di luna sul pavimento, ch'era come la traccia
luminosa di quei profumi nella cupa ombra della stanza.
— Ah, ecco… ecco…
Gli altri non potevano vederlo, non potevano sentirlo in sé, gli altri,
perché erano ancora dentro la vita. Egli, che ormai n'era quasi fuori, egli lo
aveva veduto, egli lo aveva sentito in loro. Ecco, ecco perché, quella mattina,
la bimba non tremava soltanto, ma fremeva tutta; ecco perché la nuora rideva e
si compiaceva tanto dei suoi capelli; ecco perché sospirava quella servetta;
ecco perché tutti avevano quell'aria insolita e nuova, senza saperlo.
Era entrata la primavera.
Claude Monet - La primavera
Le
novelle già inserite su Arpa eolica nelle precedenti domeniche
post inserito il 07/05/2017
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