ARTAUD – IL TEATRO E IL RITO

Con questo post continua l’inserimento su Arpa eolica del saggio su Antonin Artaud di Federico Zaffuto – tutto il piano dell’opera su

Artaud - autoritratto

DISSOLVERE LE FORME: IL TEATRO E IL RITO 
Nel capitolo precedente abbiamo potuto vedere come, secondo Artaud, l’arte possa
essere considerata uno strumento per poter scomporre e dissezionare la realtà e
quanto ciò costituisca l’opportunità per trovare un percorso attraverso cui ricreare la
vita: questo arriva ad essere la missione, se non addirittura la motivazione stessa
dell’arte. Quello a cui egli continuamente tende è il tentativo di collocare l’uomo in
una dimensione del tutto nuova ed originale, tale da permettergli la liberazione di
quelle forze che la cultura e la società hanno ingabbiato a seguito di una specifica
decisione di mondo. Nel 1935 scriveva: «Se la nostra vita manca di zolfo, cioè di una
costante magia, è perché ci compiacciamo di contemplare le nostre azioni e di
perderci in riflessioni sulle forme fantasticate delle azioni, anziché lasciarci condurre da esse»(51). Egli è convinto che la cultura occidentale abbia perduto il segreto delle
forze che agiscono dietro alla vita, come dirà espressamente l’anno seguente nelle
sue conferenze messicane: «Una testa di europeo oggi è uno scantinato dove si muovono delle ombre senza forza, che l’Europa piglia per i suoi pensieri»(52). Le
ombre senza forza sono le immagini che produrrebbe lo sguardo contemplativo del
pensiero occidentale, fermo in una sorta di stasi visuale che lo blocca nelle forme
delle proprie azioni anziché riuscire a cogliere l’energia che vi si nasconde, la spinta
magica che sottostà dietro ogni atto: in una parola la magia. Ecco perché l’arte deve
avere il compito di ricollocare l’uomo in una dimensione altra rispetto a questa
condizione statica. I suoi disegni dell’ultimo periodo erano infatti un tentativo di
rendere visibili delle forze senza passare per la loro messa in scena. Questa
impossibilità, questa difficoltà insormontabile, era in fondo l’esperienza più propria
della sua opera grafica, ovvero il tentativo di raffigurare una forza facendo a meno
della rappresentazione che, sola, può dare luogo a qualcosa di visibile, o meglio a
una visibilità. Ma l’esito a cui era arrivato tramite i propri disegni, costituisce il compimento di unaricerca sull’arte che aveva individuato nel teatro l’espressione artistica migliore persuperare quella scissione che il pensiero occidentale avrebbe prodotto tra le cose e leparole, tra i segni e i significati, in sintesi: tra la cultura e la vita. In questo senso cidobbiamo chiedere come Artaud pensava di poter realizzare tramite il suo teatrodella crudeltà, attraverso un uso magico dello spazio scenico, la riunificazione di ciòche la cultura aveva separato: l’attore e il pubblico, l’autore e il regista, il linguaggio sonoro con quello visivo, gesti, movimenti, grida, luci. Egli voleva creare uno
spettacolo in grado di produrre una sorta di contagio a distanza del pubblico, di
esorcismo, tale da far vibrare la realtà: è «in questa prospettiva magica e stregonesca» che «lo spettacolo deve essere considerato»(53). Questo doveva essere il
primo passo concreto verso la ricerca di quella magia, di quello «zolfo» che la nostra
cultura occidentale aveva perduto.


(immagine fuori testo - una messe in scena del teatro della crudeltà)

Analogamente in questa direzione di recupero di una dimensione magica, dobbiamo
considerare il viaggio che nel 1936 Artaud intraprenderà in Messico alla ricerca delle popolazioni autoctone del luogo.
Al Messico, visto come civiltà ideale da  contrapporre all’Europa (in quanto non contaminato da quel pensiero occidentale che, come abbiamo visto, aveva prodotto tanti danni), probabilmente pensava da tempo, se già nel 1931 in appendice al Secondo manifesto de Il teatro della crudeltà inserisce lo scenario di quello che doveva essere il primo spettacolo della stagione intitolato La conquête du Mexique. In questo testo la contrapposizione tra le due civiltà (quella europea e quella messicana) avviene su tutti i piani: religioso, politico (critica del colonialismo) e sociale (le antiche civiltà messicane avevano costituito «una società che sapeva dar da mangiare a tutti i suoi membri»(54). In generale vi troviamo ogni tipo di considerazione che porti a screditare l’ideologia della superiorità delle culture europee e quindi la motivazione con la quale queste si sono arrogate il diritto di conquistare le altre popolazioni. 
Ma al di là delle questioni storiche e politiche, che cos’è che Artaud sta cercando
presso le civiltà indigene messicane? Come questa esperienza può convergere nella
sua ricerca teatrale? Ricordiamo quanto aveva detto nel manifesto del 1931, dove si
sosteneva come il suo teatro intendesse rivolgersi «all’uomo totale […] E nell’uomo
terrà conto non soltanto del recto ma altresì del verso dello spirito; la realtà della
fantasia e dei sogni apparirà sullo stesso piano della vita»; e poco più avanti:
«L’accavallarsi delle immagini e dei movimenti condurrà, mediante collusioni
d’oggetti, silenzi, grida e ritmi, alla creazione di un autentico linguaggio fisico fondato sui segni e non più sulle parole» (55). Egli non è solo alla ricerca di una
dimensione magica ma anche e soprattutto di un linguaggio capace di esprimere il senso che avevano gli «antichi geroglifici» (56) e crede di poterlo ricostruire attraverso lo studio di una cultura che potremmo definire incontaminata. Artaud però non intraprende uno studio etnologico o antropologico su queste popolazioni, vuole
un’esperienza diretta che non sia in nessun modo mediata da alcun elemento della
cultura occidentale. Nel 1936 quindi parte per il Messico alla ricerca di una civiltà
che non abbia perso la vera sorgente di ispirazione legata alle dinamiche segrete della
vita; e il resoconto che ci fa di questa esperienza è totalmente compenetrato di uno
stato di coscienza simile a quello delle popolazioni autoctone. D'altronde egli stesso
in una lettera del 1945 scriverà, ripensando a questa esperienza: «Non sono andato al
Messico per fare un viaggio d’iniziazione o di piacere da raccontare poi in un libro
che si può leggere accanto al fuoco; ci sono andato per ritrovare una razza che potesse seguirmi nelle mie idee»(57).


(immagine fuori testo -  comunità di indiani  tarahumara )

Ed in effetti approcciando il testo, ad una prima  lettura, questo sembra non poter essere intellegibile ad una mente di europeo, Artaud  infatti scrive in totale assonanza col modo di compenetrare la realtà delle popolazioni  indigene: non cerca di interpretare i simboli, li descrive soltanto. Si può rimanere completamente disorientati nella lettura del testo La montagna dei segni dove le immagini che appaiono guardando il monte che sovrasta il villaggio dei tarahumara vengono descritte come le narrerebbe un bambino: «Ho visto dalla montagna un uomo nudo sporgersi da una grande foresta. La testa non era che un grande foro, una sorta di cavità circolare dove volta a volta e secondo le ore appariva il sole o la
luna»(58). Che cosa sta facendo qui Artaud? Ci sta descrivendo un monte che produce delle immagini di personificazioni viventi di esseri umani. Il testo è puramente descrittivo e la montagna viene raccontata come dalla coscienza di un bambino. È proprio uno stato di coscienza del genere che può permettere di vedere animati gli oggetti che non lo sono, specie quelli della natura. È molto simile a quel sentimento che Jentsch ha definito perturbante (59) e che viene colto soprattutto nell’infanzia, quando si ha un modo di guardare il mondo lontano dalla dinamica razionale dei fatti (60): questo stato di coscienza permette di riconoscere dei segni che sono presenti nella natura ma che normalmente non appaiono. Artaud ci descrive la roccia del monte che prende forma di «corpo d’uomo torturato» e ci dice che non bisogna credere che il prodursi di determinate forme avvenga per puro «capriccio»,  infatti queste immagini continuano ad apparire, sempre le stesse, ogni giorno chiare e
distinte. Egli è ben consapevole di come le visioni si formino attraverso un gioco di luce sulla roccia, (61)  ma questo non cambia l’importanza di questa esperienza. Le
immagini che si manifestano sulla montagna dei segni sono visibili solo ad un
determinato sguardo: ciò è possibile solamente se si riescono a superare le
concatenazioni logiche del pensiero per affidarsi ai simboli naturali che si presentano
attraverso questi segni. Qui Artaud sta tentando di risalire ad un tipo di pensiero
analogico o primitivo che gli permetta di fare esperienza di un linguaggio che il
pensiero occidentale non può riconoscere. Aderire ad uno stato di coscienza infantile
dà la possibilità di cogliere una realtà differente, e anche se questa condizione non è
espressamente richiamata in questo testo, il modo volutamente ingenuo di descrivere
le esperienze riporta immediatamente ad essa e ci fa rivenire in mente ciò che dirà
riguardo ai propri disegni nell’ultimo periodo e che abbiamo citato precedentemente
nel primo capitolo: «La pagina è lordata […] la carta spiegazzata, i personaggi disegnati dalla coscienza di un bambino»(62).
Quei segni, che solo un particolare stato di coscienza può cogliere, sono da
considerarsi comunque oggettivi, infatti, a quanto ci dice Artaud, gli indigeni del
luogo vedevano esattamente le stesse identiche forme da lui osservate. I segni
dunque non sono soggettivi, non sono il risultato di una visione distorta o
eccessivamente fantasiosa, tant’è vero che gli indigeni del luogo li hanno riprodotti e
disseminati dappertutto nei lori villaggi e gli stessi sono presenti e vengono ripetuti
anche nei riti e nelle loro danze. 

(immagine fuori testo - indiani  tarahumara)
 Vi sarebbe dunque una consapevolezza in questa capacità di saper cogliere il segno, tanto che Artaud ci parla di un vero e proprio linguaggio che affonda in una conoscenza antecedente quella delle nostre lingue naturali: «Quando un intero paese svolge sulla pietra una filosofia parallela a quella degli uomini; quando si sa che i primi uomini si servirono di un linguaggio di segni e si ritrova quella lingua enormemente ingrandita sulle rocce, certo non si può più pensare che si tratti di un capriccio e che questo capriccio non significhi niente»(63). 
Ora, sappiamo che da tempo Artaud era alla ricerca di un rinnovamento del teatro
che partisse dal linguaggio e proprio sul segno aveva svolto alcune delle principali
osservazioni: nel teatro Balinese  ad esempio vedeva una strada da seguire in quanto
era stato capace di creare «un linguaggio fisico basato sui segni e non più sulle parole» dove «gli attori […] paiono geroglifici animati» (64).


(immagini fuori testo - attore del teatro Balinese in strada)

 Ma perché è così centrale una riflessione che verta proprio su questo tema? Ancora una volta il problema è legato alla rappresentazione. Ricordiamo che per Artaud tutta l’arte non si deve limitare a imitare la realtà e fornirne una copia, ma deve essere in un certo senso rigettata nella vita. Consideriamo il segno nella sua logica del senso, esso rimanda sempre al significato che rappresenta e di per sé non è mai qualcosa ma rinvia a qualcos’altro: dovendo significare, è impossibilitato ad essere ed un teatro che si esprime in segni è obbligato a rappresentare. Ma un teatro che non si vuole che imiti la vita deve in qualche modo tentare di recuperare la dimensione viva dei segni:
questi non dovranno più rinviare ad un significato (per lo meno logico, interpretabile)
ma dovranno essere posti in una dinamica di continua produzione di senso e di realtà,
e non di riproduzione di qualcosa che già esiste. In questo modo si capisce come il teatro possa essere considerato «un mezzo per rifare la vita» (65). Ecco perché il viaggio intrapreso in Messico ci viene riportato in modo puramente descrittivo e di tutte le immagini non si dà nessun tentativo di fornire un’interpretazione, non si tratta del punto di vista di un visionario, Artaud qui non vuole e non può spiegare i segni che vede: individuarne un significato eventuale sarebbe come farli uscire da quello
statuto di produzione di senso che invece sta proprio cercando. Questo ci riporta
direttamente ai disegni che non significavano nulla, che abbiamo analizzato nella
prima parte del testo; queste forme non rimandano ad alcun significato razionale, ma
ciò non vuol dire che sono arbitrarie. Esse infatti sono colte in modo identico dagli
abitanti indigeni e, ci dice Artaud, sembrano ubbidire ad un loro senso: «Quella
figura era nota agli Indi; per la composizione, per la struttura, mi parve ubbidire al medesimo principio a cui ubbidiva l’intera montagna» (66). 
Questi segni sono talmente poco arbitrari che Artaud vi individua un richiamo
esplicito nei pittori italiani anteriori al Rinascimento, a sua detta «iniziati a una scienza segreta» (67). Ritornano ancora in questo testo pittori come Piero della
Francesca, Luca di Leida, Fra Angelico, Piero di Cosimo, Mantegna che, soprattutto
quando dipingono il tema della Natività, hanno saputo cogliere nel colore del cielo
delle loro tele lo stesso magico azzurro che sovrasta le montagne messicane. Tanto
poco mossi, secondo Artaud, dal dipingere un tema religioso, quanto piuttosto dal
mostrare con la loro pittura l’«Essenziale» che si nasconde nella Natura avendo
questi una vera e propria «ossessione naturale […] per il Come e il Perché dei
princìpi e delle esplosioni primitive della Natura, che la leggenda Pagana del Natale ha manifestato» (68). Poco dopo apprendiamo che presso i tarahumara tutto parla
secondo quei princìpi, gli stessi secondo cui la natura si è formata «e tutto vive per
quei princìpi: gli Uomini, le tempeste, il vento, il silenzio, il sole» (69). Cogliere questo  aspetto della vita era uno degli scopi essenziali del nuovo teatro. Risulta allora meno oscuro uno dei passaggi più famosi ed emblematici che viene spesso citato da Il teatro e il suo doppio: «Il teatro deve essere a sua volta considerato il Doppio, non di quella realtà quotidiana e diretta di cui a poco a poco è divenuto soltanto la copia inerte, vana quanto edulcorata, ma di una realtà rischiosa e tipica, dove i principî, come i delfini, una volta mostrata la testa, s’affrettano a reimmergersi nell’oscurità delle acque»(70).
Lo stato di coscienza che permette di accedere a queste esperienze non è uno stato di
coscienza alterato, semmai differente, se non addirittura superiore. In questo senso
siamo ancora una volta ben lontani da quello che propugnavano i surrealisti,
mediante metodi come la scrittura automatica e, in alcuni casi più estremi, il ricorso
alle droghe. Anche il surrealismo cercava infatti un modo di composizione della
realtà differente dall’usuale, ma era convinto che questo potesse avvenire in modo
meccanico, accedendo ad uno stato di coscienza alterata. Emblematico in tal senso è
vedere il ruolo che a volte veniva affidato alle droghe, proprio perché in questo caso
abbiamo elementi ulteriori di confronto con Artaud; l’esperienza che questi fece in
Messico prevedeva infatti la partecipazione a quello che era definito il rito del peiote.
Per capire che considerazione avessero i surrealisti riguardo alle sostanze
allucinogene occorre rifarsi a Breton e al suo Manifeste del 1924 dove il Surrealismo
viene paragonato ai paradisi artificiali creati dall’oppio, dall’hashish e dall’alcol,
dove si sostiene che questi ultimi, come il primo, evocano immagini spontanee che non si possono congedare perché la volontà non è più controllabile;(71) vediamo come ancora una volta (analogamente alla tematica del mondo onirico di cui abbiamo
precedentemente parlato) vi sia una ricerca di uscita dallo stato di coscienza abituale
verso l’esperienza dell’irrazionale che da sola fornirebbe la possibilità di accedere ad
immagini visionarie di sicuro valore. Anche su questo piano vi è tra questa visione e
quella di Artaud una posizione specularmente opposta. Dal resoconto del suo viaggio
in Messico apprendiamo infatti che Artaud partecipò al rito del peiote, un rito di
guarigione al termine del quale veniva consumata questa sostanza in piccole dosi.

 (immagine fuori testo - il rito del peyote)

La motivazione della sua partecipazione era innanzitutto terapeutica: poiché la sua malattia (72)  era stata curata attraverso la somministrazione di droghe quali l’oppio e ad un certo punto addirittura l’eroina, egli cercava una sorta di purificazione da queste sostanze, una specie di lavacro attraverso l’esperienza di una droga «positiva»,
rituale e collettiva, il peiote appunto, che doveva diventare così la sostanza purificatrice, il farmaco della nuova salute.(73) Ma è interessante a questo riguardo
osservare quale era l’opinione che egli aveva circa il suo uso e gli effetti da esso
prodotti: «Prendere i vostri sogni per delle realtà – ecco ciò in cui il Peyotl non vi
lascerà mai sprofondare – dove confondere percezioni improntate ai bassifondi
sfuggenti, incolti, non ancora maturi, non ancora sorti dell’inconscio allucinatorio con le immagini, le emozioni del vero»(74). Egli non è mai alla ricerca di uno stato di
coscienza allucinatorio che sfoci nell’irrazionale, e questo (come era già per la
ricerca di una vera dimensione onirica) lo distanzia assolutamente dalla posizione dei
surrealisti e lo avvicina invece a quella che doveva essere l’esperienza che gli
indigeni cercavano davvero nella somministrazione di queste sostanze; come ci
conferma l’antropologo Lanternari che si è occupato esplicitamente del Peiotismo nel
suo saggio sui movimenti religiosi dei popoli oppressi: «Il peiote è una pianta la cui
ingestione produce effetti fisiologici particolari […] D’altra parte l’impiego che gli
indiani ne fanno è esclusivamente rituale, e appare pertanto un nonsenso voler ridurre il peiote a una sorta di “paradiso artificiale”»(75). Nessuna ricerca di uno stato di
coscienza alterato e di visioni allucinate dunque. Anzi Artaud ci dice espressamente
che questa sostanza aiuta a distinguere le percezioni e le visioni false (di cui accenna
aver avuto esperienza prima della sua somministrazione senza però entrare nel
dettaglio) da quelle vere, proprio l’opposto dunque della ricerca di uno stato di
coscienza alterato: «Il Peyotl, per quel che ho visto, fissa la coscienza e le impedisce di smarrirsi, d’abbandonarsi alle impressioni false»(76). Ma che tipo di coscienza bisogna avere per sapere cogliere i segni viventi della montagna dei segni e il valore del rito del peyote? Precedentemente non a caso avevamo nominato il sentimento del perturbante, condizione nella quale ci si trova quando attraversiamo un’ esperienza che destabilizza le nostre abitudini intellettuali. Di fronte ad uno stato simile, arriviamo a provare una sensazione non proprio dipaura, ma di inadeguatezza; è come se questa esperienza, nel momento in cui laviviamo, ci mettesse davanti ad una realtà non più ricongiungibile con le nostreabituali determinazioni di mondo. Questa dimensione, che una mentalità razionale potrebbe definire alterata, è simile alle sensazioni che provano gli indigeni nel sentire nominare la parola Ciguri (termine che questi usano alternativamente a Peyotl).
Artaud ci dice che chi era incaricato ad accompagnarlo al villaggio gli aveva riferito
che i tarahumara hanno paura di sentire il nome Ciguri. Poco più avanti però
apprendiamo l’inesattezza di questa considerazione, quello che essi provano non è
esattamente un sentimento di paura, ma una sorta di horror sacri: «CIGURI è un
nome che alle orecchie degli Indi non piace sentir nominare […] Ora, mi accorsi che
se vi è un sentimento a quel proposito che può esser loro estraneo è proprio la paura,
ma che invece quella parola risveglia in loro il senso del sacro in modo che la coscienza europea non conosce più» (77). Capiamo innanzitutto che vi è un rapporto
con la parola del tutto particolare per queste popolazioni: nominare qualcosa
significa portare alla presenza reale ciò che si nomina, ecco che dunque il segno
sonoro in questo senso non è solo una rappresentazione di qualcosa che sta per, ma
una vera e propria presenza vivente. E qual è il genere di sentimento che si prova di
fronte a queste manifestazioni che potremmo definire viventi? Lo stato d’animo che
gli indigeni provano quando si nomina loro la parola Ciguri viene così descritto: «Un
terrore, devo dire, si sprigionava infatti dal suo atteggiamento, ma non gli
apparteneva, perché esso lo ricopriva come d’uno scudo o d’un mantello. Lui,
sembrava felice come lo si è solo negli attimi supremi dell’esistenza, con il volto traboccante di gioia e in adorazione»(78). 
Recuperare un segno che faccia vivere questa esperienza di sacro terrore di cui
abbiamo parlato, questo era ciò che cercava Artaud nel suo teatro, ecco perché egli fa
spesso riferimento a termini come «terrore», «crudeltà» ed è alla ricerca di un teatro
che destabilizzi il pubblico, un pubblico che deve uscire totalmente scosso dopo la
visione dello spettacolo. 




(immagini fuori testo - Artaud considerava "il sogno" di Strindberg e "6 personaggi ..." di Pirandello esempi di questo della crudeltà)

Questa violenza non è gratuita, non è derivante da un disordinato e irrazionale uso di ciò che viene definito crudeltà, anzi vi deve essere, a detta di Artaud, una precisa conoscenza tecnica e una sveglia coscienza per arrivare ad esprimere la vera essenza di questo concetto: «Dal punto di vista dello spirito, crudeltà significa rigore, applicazione e decisione implacabile, determinazione irreversibile, assoluta […] È un errore attribuire al termine “crudeltà” un senso di spietata carneficina, di ricerca gratuita e disinteressata del male fisico […] non è sinonimo di versamento di sangue, di carne martoriata, di nemico crocifisso […] La crudeltà è prima di tutto lucida, è una sorta di rigido controllo, di sottomissione alla necessità. Non si ha crudeltà senza coscienza, senza una sorta di coscienza applicata»(79). Egli definisce questa coscienza sveglia proprio in opposizione all’addormentato onirismo propugnato dai surrealisti e all’inutile stato di coscienza alterato, prodotto dalle droghe. 

(immagine messicana sul rito del peyote)

Questa coscienza è la stessa che egli ritroverà nel
paese messicano, quella che ci fa attingere al «Meraviglioso» e con la quale «si
possono oltrepassare le cose», questa permette di far ritrovare la dimensione del
«Fantastico» quella sorta di «soffio atavicamente represso e otturato» che è il mistero ed è alla base di tutta la poesia.(80) RITORNA A L’INDICE DEI CAPITOLI

NOTE
51 A. Artaud, “Il teatro e la cultura” (1935), tr. it. di E. Capriolo in Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 2000, pp. 127-133, qui p. 128.
52 «Une tête d’Européen aujourd’hui est une cave où bougnent des simulacres sans forces, que l’Europe prend pour ses pensées.» Mia traduzione. A. Artaud, “Le Mexique et la civilisation” in Oeuvres complètes vol. VIII, a cura di P. Thévenin, Gallimard, Paris 1956-1994.
 Carl Theodor Dreyer
53 A. Artaud, “Teatro Orientale e teatro Occidentale” (1935), tr. it. di E. Capriolo in Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 2000, pp. 186-190, qui p. 189.
54 A. Artaud, “Il teatro della crudeltà” (1931), tr. it. di E. Capriolo in Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 2000, pp. 236-241, qui pp. 240-241.
55 Ivi, pp. 237-238.
56 Ibidem.
57 A. Artaud, “Lettere da Rodez” (1945), tr. it. di C. Rugafiori, in Al paese dei Tarahumara, Adelphi, Milano 2001, pp. 159-195, qui p. 171
58 A. Artaud, “Viaggio al paese dei Tarahumara” (1936), tr. it. di C. Rugafiori, in Al paese dei Tarahumara, Adelphi, Milano 2001, pp. 69-97, qui p. 71.
59  E. Jentsch, Zur Pshychologie des Unheimliche, in Psychiatrische-Neurologische Wochenschrift, VIII, 1906, n. 22.
60 Secondo Jentsch, il sentimento perturbante si ha quando c'è incertezza intellettuale. Quando siamo posti in una situazione di incapacità di spiegare razionalmente dei fatti. Secondo lui, tanto più un uomo è aderente al mondo circostante, tanto più è emotivamente sicuro, tanto meno facilmente avrà percezione dell'esterno in modo perturbante. In questo senso la coscienza infantile è più portata a fare vivere l’esperienza del perturbante.
 61 “Potei rendermi conto però che non avevo a che fare con forme scolpite, ma con un determinato gioco di luci, che s’aggiungeva al rilievo delle rocce.» A. Artaud, “Viaggio al paese dei Tarahumara” (1936), tr. it. di C. Rugafiori, in Al paese dei Tarahumara, Adelphi, Milano 2001, pp. 69-97, qui p. 71.
62 cfr. capitolo precedente a p. 5
63 A. Artaud, “Viaggio al paese dei Tarahumara” (1936), tr. it. di C. Rugafiori, in Al paese dei Tarahumara, Adelphi, Milano 2001, pp. 69-97, qui p. 70.
64 A. Artaud, “Sul teatro Balinese” (1931), tr. it. di E. Capriolo in Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 2000, pp. 170-184, qui p. 171.
65 Ibidem.
66 A. Artaud, “Viaggio al paese dei Tarahumara” (1936), tr. it. di C. Rugafiori, in Al paese dei Tarahumara, Adelphi, Milano 2001, pp. 69-97, qui p. 71.
67 Ivi, p. 87.
68 Ivi, p. 88.
69 Ibidem.
70 A. Artaud, “Il teatro alchimistico” (1932), tr. it. di E. Capriolo in Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 2000, pp. 165-169, qui p. 165.
71 Cfr. L. Binni, Il surrealismo. Letteratura francese contemporanea. Le correnti d’avanguardia, Lucarini Editore, Roma 1984.
72 Per tutta la vita Artaud sofferse di dolorosissimi e inguaribili mal di testa che lo tormentavano in modo assillante, portandolo a cercare ogni tipo di soluzione, persino il ricorso a maghi e cartomanti. Per maggiori informazioni al riguardo si può consultare il testo: G. Charbonnier, Essai sur Antonin Artaud, Seghers, Paris 1959.
73 Per informazioni sulle motivazioni del viaggio in Messico si veda il testo di C. Pasi, Artaud attore, La Casa Usher, Firenze 1989.
74 A. Artaud, “Il rito del Peyotl presso i Tarahumara” (1943), tr. it. di C. Rugafiori, in Al paese dei Tarahumara, Adelphi, Milano 2001, pp. 129-153, qui pp. 148-149.
75 V. Lanternari, Movimenti religiosi di libertà e di salvezza dei popoli oppressi, Feltrinelli Editore, Milano 1960, qui p. 68.
76 A. Artaud, “Il rito del Peyotl presso i Tarahumara” (1943), tr. it. di C. Rugafiori, in Al paese dei Tarahumara, Adelphi, Milano 2001, pp. 129-153, qui p. 152.
77 A. Artaud, “Il rito del Peyotl presso i Tarahumara” (1943), tr. it. di C. Rugafiori, in Al paese dei Tarahumara, Adelphi, Milano 2001, pp. 129-153, qui pp. 132-133.
78 Ibidem.
79 A. Artaud, “Lettere sulla crudeltà” 1932, tr. it. di E. Capriolo in Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 2000, pp. 216-219, qui pp. 216-217.
80 A. Artaud, “Il rito del Peyotl presso i Tarahumara” (1943), tr. it. di C. Rugafiori, in Al paese dei Tarahumara, Adelphi, Milano 2001, pp. 129-153.


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