La matassa di spago
Romanzo breve – inedito di Francesco Zaffuto
Copyright © Francesco Zaffuto
10° puntata
Dai primi giorni
d’ottobre dell’anno scorso, in cui accaddero il fatto del supermercato e quello
della chiesa, non ebbi più tracce del Mazzetti. Poi in aprile, mentre facevo
una passeggiata a Villa Borghese lo vedo steso con il suo vestito cencioso e
con le spalle appoggiate ad un albero, ai suoi piedi un cappello che forse
invitava alle elemosine, pareva sonnecchiare colpito dal sole primaverile.
Stavo là ad osservarlo indeciso se avvicinarmi
e svegliarlo dal suo torpore; quando una
signora con una carrozzina stava proprio per passare sopra le sue ginocchia, il
bambino che le camminava accanto disse con voce squillante: “Mamma, attenta c’è
un signore!” “Ma che dici non c’è nessuno” disse la donna. “No, mamma, gira di
qua.”
La donna sbuffando seguì le indicazioni del
bambino e la carrozzina non passò sulle ginocchia del Mazzetti che non si era
mosso minimamente. Era accaduta ancora una volta la stessa cosa successa vicino
al fiume, quando il Ripa non vedeva, ed ora io ne ero stato un testimone
indiretto.
Quando la donna si fu
allontanata il Mazzetti si alzò e io mi avvicinai a lui.
“Salve commissario, è
tanto tempo che non ci si vede. Capisco che è rimasto meravigliato, la donna
non mi ha visto e il bambino mi ha visto, e lei in questo momento mi vede. Lei
ora comincerà a cercare di capirci qualcosa e mi farà delle domande, domande a
cui io sarei ben felice di rispondere, ma non riesco a rispondere perché non
so. I bambini spesso mi vedono, ma non tutti, forse quelli che sono già
diventati cattivi non mi vedono.”
“Io sarei un bambino
buono!” dissi quasi ridendo.
“Può darsi. Comunque
non dipende da me, le situazioni si verificano da sole e io non le controllo.”
“Non mi hai aspettato quel giorno” dissi io a
bruciapelo.
“Ma si che c’ero ad
aspettarla, ma lei non venne da solo , e nella mia condizione non era il caso
di fare una riunione. Appena vidi che
era sceso con un suo collaboratore sono proprio scappato.”
Raccolse il suo
cappello da terra e insieme ci andammo a sedere su una panchina.
“La prego, commissario, non mi guardi come un
fenomeno di baraccone, o come un personaggio di quei racconti fantascientifici,
io ci sono, può vedermi e toccarmi.”
Appoggiò per un attimo
la sua mano sul dorso della mia mano sinistra,
potei osservarne il senso del suo tatto e subito la ritrasse.
“Io esisto fisicamente in tutte le mie qualità
e con i miei stracci e con le cose che tocco e prendo. Sono loro che non mi
vedono e non vedono neanche gli stracci che porto addosso, le cose che faccio,
non sentono quello che dico, è come se non gli importasse nulla di me e questa
loro disattenzione arrivasse a smaterializzarmi. Ma non accade sempre, perché
certe volte per arrecarmi un danno mi vedono. La mia vita è diventata un
disastro da quando la fortuna si è allontanata da me, prima mi vedevano e mi
rispettavano. Poi cominciò a crollare
tutto, cercai un lavoro e si chiudevano tutte le porte, cercai un aiuto, non mi
ascoltavano e si lamentavano con me della loro limitata fortuna, amici e
parenti sentivano la mia presenza
imbarazzante, poi a poco a poco mi accorsi che alcuni non mi vedevano più
fisicamente. Non so se quello che sta accadendo a me stia accadendo anche ad
altre persone ridotte come me, non saprei commissario. Ma si renda conto che
non è bello, né facile per me, con queste mie qualità non riesco neanche a raccogliere l’elemosina.
Come si fa a fare la carità ad uno che non si vede? E poi tutte le volte che
prendo spintoni, da quelli che non mi hanno visto e sovente rischio di essere
buttato sotto da una macchina o urtato di malo modo da una semplice bicicletta.
L’unico vantaggio è quello che potrei rubare, ma non è nella mia natura, mi fa
un po’ schifo. Prendo qualcosa in momenti
di disperazione. Nella maggior parte dei
casi non se ne accorgono, poi ogni tanto senti gridare: al ladro, al ladro.
Come quella volta che mi hanno visto in quel supermercato. Ed io non capisco
perché quella volta mi hanno visto ed altre volte non mi hanno visto. Forse debbo fare qualche cosa di grande,
qualcosa di quelle che fanno parlare tutti giornali, di prima pagina, per farmi
vedere, toccare, processare, condannare. Ma non voglio fare danni, e non mi va
neanche di andare in prigione. Che cosa me ne faccio di una visibilità solo per essere condannato ed andare in prigione?
Meglio restare a dormire sotto i ponti, ma a
volte il freddo è pungente. Dovrei decidermi di andare a dormire in uno di
questi hotel a cinque stelle che ci sono a Roma, quelli da 500 euro a notte, e
approfittare del mio status.
Quale mi consigli?
Ah … già tu non devi essere tanto esperto di
hotel di lusso. Io quasi quasi mi
orienterei per quell’hotel che sta in
cima alla scalinata di Piazza di Spagna, ci deve essere una bella vista di là.
Potrei prendere una suite.”
Sul finale del suo lungo discorso aveva
cominciato a darmi del tu.
Non era facile fare altre domande dopo quello
che mi aveva detto, gli offrii una sigaretta e lui accettò. Fumammo
silenziosamente, vedevo il fumo che
usciva dalla sua bocca, i suoi capelli che avanzavano verso il bianco e
svolazzavano come il fumo, mi chiedevo se le persone che passavano lì vicino
erano in grado di vedere lui, o vedere
solo me mentre parlavo da solo, o non vedere nessuno perché entrambi eravamo
diventati invisibili.
Finito di fumare, tirò
fuori una matassa di spago:
“Che ci fai con tutto
quello spago?”
“Per gente come me, che
viaggia lo spago è indispensabile, ci lego le mie povere cose per trasportarle
qua e là. Ci lego ancora quei pensieri e
i desideri remoti che mi sfuggono …”
Si alzò, ritornò sotto
l’albero, dove aveva lasciato un paio di cartoni e degli indumenti, li legò insieme, poi disse: “le auguro un briciolo di fortuna,
commissario”, e andò via.
Lo andai a trovare un altro paio di volte in
maggio sul lungo Tevere, e l’ultima mi disse:
“Non mi piace il tuo
capo”.
“Il mio capo, come fai a conoscere il
questore?”
“Ma no, quello che dice
di essere il capo di tutti, del
governo.”
Non gli diedi peso.
Come dare peso alle cose invisibili?
Anche durante la mia
passeggiata per Roma, mentre divagavo nei ricordi e osservavo strade e vetrine,
stavo ben attento se squillava il mio cellulare. Pensavo che il questore mi
avrebbe potuto chiamare.
Niente.
Arrivai a casa, nella
cassetta delle lettere c’era un foglio, aprii e in una calligrafia difficile a
decifrarsi alla fine compresi le poche parole:
“Ma
che razza di stupida idea impedirmi di andare a dormire nella mia camera 41 al
Pincio. Comunque ciao e buona salute. Franco M.”
Era un biglietto del
Mazzetti che mi rimproverava per avergli disturbato con le mie indagini le sue
notti.
Il caso nella mia mente era ormai risolto, ma
come risolverlo nella mente degli altri?
Il telegiornale della sera non si soffermò
tanto sulle notizie su Rasputin, anche perché grandi e quotidiane disgrazie si
erano accavallate nel giorno. Il questore non telefonò neanche quella sera ed
io dopo una cena sbrigativa andai a letto con i miei Miserabili.
Arrivai fino in fondo alla cloaca, con sulle
spalle il Mazzetti, inseguito dall’altra parte di me che interpretava la parte
di Javert.
Marius, forse morto, pesava
come pesano i corpi inerti. Jean Valjean lo sosteneva in modo che il petto non
fosse schiacciato e che la respirazione potesse sempre svolgersi nella maniera
migliore. Sentiva tra le gambe il rapido guizzare dei ratti. Uno di essi si
spaventò al punto di morderlo. Di tanto in tanto dai tombini arrivava un soffio
di aria fresca che lo rianimava…
Anch’io provai a
respirare profondamente e mi addormentai.
Copyright © Francesco Zaffuto
post inserito il 21/01/2018
Visibilità e invisibilità... che grande tema.
RispondiEliminaCiao, buona domenica.