riflessione sul XX
secolo
di Angelo Gaccione
Non conosco definizione più falsa e fuorviante
di quella dello storico Eric Hobsbawm, fra quelle con cui viene designato il
Novecento: “secolo breve”. Di breve
questo secolo non ha avuto nulla. Non lo è stato per le guerre:
due interminabili guerre mondiali e centinaia di conflitti e colpi di stato in ogni parte dello scacchiere mondiale, dall’Africa al Sudest asiatico, dall’America Latina al Medioriente, con un bilancio di morti, feriti, profughi e distruzioni inenarrabili, che non trovano eguali in altre epoche storiche. Per nessuno dei trucidati nei campi di sterminio, dei violati del Vietnam, dei separati del Sudafrica, dei desaparecidos dell’America Latina, il tempo della tragedia è stato breve. Non lo è stato per le persecuzioni razziali, il neocolonialismo, la guerra fredda, le ideologie totalitarie, così come non lo è stato per le lotte di liberazione, i diritti civili, quelli delle donne.
due interminabili guerre mondiali e centinaia di conflitti e colpi di stato in ogni parte dello scacchiere mondiale, dall’Africa al Sudest asiatico, dall’America Latina al Medioriente, con un bilancio di morti, feriti, profughi e distruzioni inenarrabili, che non trovano eguali in altre epoche storiche. Per nessuno dei trucidati nei campi di sterminio, dei violati del Vietnam, dei separati del Sudafrica, dei desaparecidos dell’America Latina, il tempo della tragedia è stato breve. Non lo è stato per le persecuzioni razziali, il neocolonialismo, la guerra fredda, le ideologie totalitarie, così come non lo è stato per le lotte di liberazione, i diritti civili, quelli delle donne.
Al contrario, la definizione più pertinente, più precisa,
più veritiera e che lo rivela nella sua profondità più acuta, è quella di
Jean-Claude Carrière che ha magistralmente definito il XX secolo come “secolo dell’esilio”. E come giustamente
afferma in un libro conversazione del 1994 con il Dalai Lama: La force du bouddhisme, pubblicato
l’anno successivo in Italia con il titolo: La
compassione e la purezza, “nessun secolo mai strappò tante radici”.
Non c’è alcun dubbio che il Novecento è stato il secolo
dell’esilio. Non possediamo le cifre complessive e forse una stima globale non
sarà mai possibile, ma fra esilio “volontario” ed esilio forzato (emigrazione
economica, politica, razziale, religiosa, ambientale, di guerra), hanno varcato
oceani, terre, confini, milioni, milioni e milioni di persone di ogni età. Da
quel grande esilio che è stata l’emigrazione europea verso le Americhe e
l’Australia; all’esilio interno ai vari Paesi con la fuga dalle aree
industrialmente depresse e rurali, verso quelle dello sviluppo e del boom
economico, che ha desertificato popoli e regioni. Così all’ingrosso, e senza
rispetto per la cronologia della storia e il mappamondo, possiamo metterci
dentro luoghi del mondo fra i più diversi: Tibet, India, Pakistan, ex Persia
dello scià Reza Palhevi, Palestina, Corno d’Africa e di gran parte di questo
immenso continente, Magreb, Repubbliche sovietiche, ex Jugoslavia e altro
ancora. Dai Pieds-noirs fino ai boat people, ai deportati, ai figli senza più
patria delle guerre interminabili di ogni dove. Un esodo biblico dalle proporzioni
incalcolabili.
Se confrontiamo la carta geografica del mondo degli
ultimi cento anni, rimaniamo storditi nel rilevare quanti confini sono stati
spostati, quanti stati hanno cambiato nome, quanti regimi si sono succeduti. Se
gli storici e i commentatori assumessero questa definizione di Carrière, forse
comprenderemmo meglio un secolo che per conto mio non si è ancora concluso,
perché tutte le ferite che il Novecento ha lasciato aperte, le ha trasferite
intatte o più virulente nel primo quindicennio del nuovo secolo. E perdurano,
conferendo allo sradicamento e all’esilio di interi popoli o di parti di essi,
proporzioni che non avremmo neppure immaginato.
[Pubblicato
su “Odissea” in Rete mercoledì 25 gennaio 2017]
post
inserito il 04/02/2017
Condivido l’analisi di Jean-Claude Carrière riproposta da Angelo Gaccione e spero che questo XXI secolo, che stiamo vivendo, non si venga a caratterizzare come il “Secolo dei muri” che si oppone a quello dell’esilio.
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