siamo stati tutti studenti … proviamo
a ricordare con affetto di un vecchio professore… in questa novella Pirandello
ne traccia un quadro ironico e drammatico…
nato ad
Agrigento (Girgenti)
il 28 giugno
1867
Arpa eolica quest’anno sta dedicando diversi
post alla celebrazione dell’anniversario: ed oggi 30 aprile 2017 la
novella
Bernardino
Lamis, professore ordinario di storia delle religioni, socchiudendo gli occhi
addogliati e, come soleva nelle piú gravi occasioni, prendendosi il capo
inteschiato tra le gracili mani tremolanti che pareva avessero in punta, invece
delle unghie, cinque rosee conchigliette lucenti, annunziò ai due soli alunni
che seguivano con pertinace fedeltà il suo corso:
— Diremo, o signori, nella ventura
lezione, dell'eresia catara.
Uno de' due studenti, il Ciotta – bruno
ciociaretto di Guarcino, tozzo e solido – digrignò i denti con fiera gioja e si
diede una violenta fregatina alle mani. L'altro, il pallido Vannícoli, dai
biondi capelli irti come fili di stoppia e dall'aria spirante, appuntí invece
le labbra, rese piú dolente che mai lo sguardo dei chiari occhi languidi e
stette col naso come in punto a annusar qualche odore sgradevole, per
significare che era compreso della pena che al venerato maestro doveva certo
costare la trattazione di quel tema, dopo quanto glien'aveva detto
privatamente. (Perché il Vannícoli credeva che il professor Lamis quand'egli e
il Ciotta, finita la lezione, lo accompagnavano per un lungo tratto di via
verso casa, si rivolgesse unicamente a lui, solo capace d'intenderlo.)
E difatti il Vannícoli sapeva che da circa sei
mesi era uscita in Germania (Halle a. S.) una mastodontica monografia di Hans
von Grobler su l'Eresia Catara, messa dalla critica ai sette cieli, e che su lo
stesso argomento, tre anni prima, Bernardino Lamis aveva scritto due poderosi
volumi, di cui il von Grobler mostrava di non aver tenuto conto, se non solo
una volta, e di passata, citando que' due volumi, in una breve nota; per dirne
male.
Bernardino Lamis n'era rimasto ferito proprio
nel cuore; e piú s'era addolorato e indignato della critica italiana che,
elogiando anch'essa a occhi chiusi il libro tedesco, non aveva minimamente
ricordato i due volumi anteriori di lui, né speso una parola per rilevare
l'indegno trattamento usato dallo scrittore tedesco a uno scrittor paesano. Piú
di due mesi aveva aspettato che qualcuno, almeno tra i suoi antichi scolari, si
fosse mosso a difenderlo; poi, tuttoché – secondo il suo modo di vedere – non
gli fosse parso ben fatto, s'era difeso da sé, notando in una lunga e minuziosa
rassegna, condita di fine ironia, tutti gli errori piú o meno grossolani in cui
il von Grobler era caduto, tutte le parti che costui s'era appropriate della sua
opera senza farne menzione, e aveva infine raffermato con nuovi e inoppugnabili
argomenti le proprie opinioni contro quelle discordanti dello storico tedesco.
Questa sua difesa, però, per la troppa
lunghezza e per lo scarso interesse che avrebbe potuto destare nella
maggioranza dei lettori, era stata rifiutata da due riviste; una terza se la
teneva da piú d'un mese, e chi sa quanto tempo ancora se la sarebbe tenuta, a
giudicare dalla risposta punto garbata che il Lamis, a una sua sollecitazione,
aveva ricevuto dal direttore.
Sicché dunque davvero Bernardino Lamis aveva
ragione, uscito dall'Università, di sfogarsi quel giorno amaramente coi due
suoi fedeli giovani che lo accompagnavano al solito verso casa. E parlava loro
della spudorata ciarlataneria che dal campo della politica era passata a
sgambettare in quello della letteratura, prima, e ora, purtroppo, anche nei
sacri e inviolabili dominii della scienza; parlava della servilità vigliacca
radicata profondamente nell'indole del popolo italiano, per cui è gemma
preziosa qualunque cosa venga d'oltralpe o d'oltremare e pietra falsa e vile
tutto ciò che si produce da noi; accennava infine agli argomenti piú forti
contro il suo avversario, da svolgere nella ventura lezione. E il Ciotta,
pregustando il piacere che gli sarebbe venuto dall'estro ironico e bilioso del
professore, tornava a fregarsi le mani, mentre il Vannícoli, afflitto,
sospirava.
A un certo punto il professor Lamis tacque e
prese un'aria astratta: segno, questo, per i due scolari, che il professore
voleva esser lasciato solo.
Ogni volta, dopo la lezione, si faceva una
giratina per sollievo giú per la piazza del Pantheon, poi sú per quella della
Minerva, attraversava Via dei Cestari e sboccava sul Corso Vittorio Emanuele.
Giunto in prossimità di Piazza San Pantaleo, prendeva quell'aria astratta,
perché solito – prima di imboccare la Via del Governo Vecchio, ove abitava –
d'entrare (furtivamente, secondo la sua intenzione) in una pasticceria, donde
poco dopo usciva con un cartoccio in mano.
I due scolari sapevano che il professor Lamis
non aveva da fare neppur le spese a un grillo, e non si potevano perciò
capacitare della compera di quel cartoccio misterioso, tre volte la settimana.
Spinto dalla curiosità, il Ciotta era finanche
entrato un giorno nella pasticceria a domandare che cosa il professore vi
comperasse.
— Amaretti, schiumette e bocche di
dama.
E per chi serviranno?
Il Vannícoli diceva per i nipotini. Ma il
Ciotta avrebbe messo le mani sul fuoco che servivano proprio per lui, per il
professore stesso; perché una volta lo aveva sorpreso per via nel mentre che si
cacciava una mano in tasca per trarne fuori una di quelle schiumette e doveva
già averne un'altra in bocca, di sicuro, la quale gli aveva impedito di
rispondere a voce al saluto che lui gli aveva rivolto.
— Ebbene, e se mai, che c'è di male?
Debolezze! — gli aveva detto, seccato, il Vannícoli, mentre da lontano seguiva
con lo sguardo languido il vecchio professore, il quale se ne andava pian
piano, molle molle, strusciando le scarpe.
Non solamente questo peccatuccio di gola, ma
tante e tant'altre cose potevano essere perdonate a quell'uomo che, per la
scienza, s'era ridotto con quelle spalle aggobbate che pareva gli volessero
scivolare e fossero tenute sú, penosamente, dal collo lungo, proteso come sotto
un giogo. Tra il cappello e la nuca la calvizie del professor Lamis si scopriva
come una mezza luna cuojacea; gli tremolava su la nuca una rada zazzeretta argentea,
che gli accavallava di qua e di là gli orecchi e seguitava barba davanti – su
le gote e sotto il mento – a collana.
Né il Ciotta né il Vannícoli avrebbero mai
supposto che in quel cartoccio Bernardino Lamis si portava a casa tutto il suo
pasto giornaliero.
Due anni addietro, gli era piombata addosso da
Napoli la famiglia d'un suo fratello, morto colà improvvisamente: la cognata,
furia d'inferno, con sette figliuoli, il maggiore dei quali aveva appena undici
anni. Notare che il professor Lamis non aveva voluto prender moglie per non
esser distratto in alcun modo dagli studii. Quando, senz'alcun preavviso, s'era
veduto innanzi quell'esercito strillante, accampato sul pianerottolo della
scala, davanti la porta, a cavallo d'innumerevoli fagotti e fagottini, era
rimasto allibito. Non potendo per la scala, aveva pensato per un momento di
scappare buttandosi dalla finestra. Le quattro stanzette della sua modesta
dimora erano state invase; la scoperta d'un giardinetto, unica e dolce cura
dello zio, aveva suscitato un tripudio frenetico nei sette orfani sconsolati,
come li chiamava la grassa cognata napoletana. Un mese dopo, non c'era piú un
filo d'erba in quel giardinetto. Il professor Lamis era diventato l'ombra di se
stesso: s'aggirava per lo studio come uno che non stia piú in cervello,
tenendosi pur nondimeno la testa tra le mani quasi per non farsela portar via
anche materialmente da quegli strilli, da quei pianti, da quel pandemonio
imperversante dalla mattina alla sera. Ed era durato un anno, per lui, questo
supplizio, e chi sa quant'altro tempo ancora sarebbe durato, se un giorno non
si fosse accorto che la cognata, non contenta dello stipendio che a ogni
ventisette del mese egli le consegnava intero, ajutava dal giardinetto il
maggiore dei figliuoli a inerpicarsi fino alla finestra dello studio, chiuso
prudentemente a chiave, per fargli rubare i libri:
— Belli grossi, neh, Gennarie', belli
grossi e nuovi!
Mezza la sua biblioteca era andata a finire
per pochi soldi sui muricciuoli.
Indignato, su le furie, quel giorno stesso,
Bernardino Lamis con sei ceste di libri superstiti e tre rustiche scansie, un
gran crocefisso di cartone, una cassa di biancheria, tre seggiole, un ampio
seggiolone di cuojo, la scrivania alta e un lavamano, se n'era andato ad
abitare – solo – in quelle due stanzette di via Governo Vecchio, dopo aver
imposto alla cognata di non farsi vedere mai piú da lui.
Le mandava ora per mezzo d'un bidello
dell'Università, puntualmente ogni mese, lo stipendio, di cui tratteneva
soltanto lo stretto necessario per sé.
Non aveva voluto prendere neanche una serva a
mezzo servizio, temendo che si mettesse d'accordo con la cognata. Del resto,
non ne aveva bisogno. Non s'era portato nemmeno il letto, dormiva con uno
scialletto su le spalle, avvoltolato in una coperta di lana, entro il
seggiolone. Non cucinava. Seguace a modo suo della teoria del Fletcher, si
nutriva con poco, masticando molto. Votava quel famoso cartoccio nelle due
ampie tasche dei calzoni, metà qua, metà là, e mentre studiava o scriveva, in piedi com'era solito, mangiucchiava o un
amaretto o una schiumetta o una bocca di dama. Se aveva sete, acqua. Dopo un
anno di quell'inferno, si sentiva ora in paradiso.
Ma era venuto il von Grobler con quel suo
libraccio su l'Eresia Catara a guastargli le feste.
Quel giorno, appena rincasato, Bernardino
Lamis si rimise al lavoro, febbrilmente.
Aveva innanzi a sé due giorni per finir di
stendere quella lezione che gli stava tanto a cuore. Voleva che fosse
formidabile. Ogni parola doveva essere una frecciata per quel tedescaccio von
Grobler.
Le sue lezioni egli soleva scriverle dalla
prima parola fino all'ultima, in fogli di carta protocollo, di minutissimo
carattere. Poi, all'Università, le leggeva con voce lenta e grave, reclinando
indietro il capo, increspando la fronte e stendendo le pàlpebre per potere
vedere attraverso le lenti insellate su la punta del naso, dalle cui narici
uscivano due cespuglietti di ispidi peli grigi liberamente cresciuti. I due
fidi scolari avevano tutto il tempo di scrivere quasi sotto dettatura. Il Lamis
non montava mai in cattedra: sedeva umilmente davanti al tavolino sotto. I
banchi, nell'aula, erano disposti in quattro ordini, ad anfiteatro. L'aula era
buja, e il Ciotta e il Vannícoli all'ultimo ordine, uno di qua, l'altro di là,
ai due estremi, per aver luce dai due occhi ferrati che si aprivano in alto. Il
professore non li vedeva mai durante la lezione: udiva soltanto il raspío delle
loro penne frettolose.
Là, in quell'aula, poiché nessuno s'era levato
in sua difesa, lui si sarebbe vendicato della villania di quel tedescaccio,
dettando una lezione memorabile.
Avrebbe prima esposto con succinta chiarezza
l'origine, la ragione, l'essenza, l'importanza storica e le conseguenze
dell'eresia catara, riassumendole dai suoi due volumi; si sarebbe poi lanciato
nella parte polemica, avvalendosi dello studio critico che aveva già fatto sul
libro del von Grobler. Padrone com'era della materia, e col lavoro già pronto,
sotto mano, a una sola fatica sarebbe andato incontro: a quella di tenere a
freno la penna. Con l'estro della bile, avrebbe scritto in due giorni, su
quell'argomento, due altri volumi piú poderosi dei primi.
Doveva invece restringersi a una piana lettura
di poco piú di un'ora: riempire cioè di quella sua minuta scrittura non piú di
cinque o sei facciate di carta protocollo. Due le aveva già scritte. Le tre o
quattro altre facciate dovevano servire per la parte polemica.
Prima d'accingervisi, volle rileggere la bozza
del suo studio critico sul libro del von Grobler. La trasse fuori dal cassetto
della scrivania, vi soffiò su per cacciar via la polvere, con le lenti già su
la punta del naso, e andò a stendersi lungo lungo sul seggiolone.
A mano a mano, leggendo, se ne compiacque
tanto, che per miracolo non si trovò ritto in piedi su quel seggiolone; e
tutte, una dopo l'altra, in men d'un'ora, s'era mangiato inavvertitamente le
schiumette che dovevano servirgli per due giorni. Mortificato, trasse fuori la
tasca vuota, per scuoterne la sfarinatura.
Si mise senz'altro a scrivere, con
l'intenzione di riassumere per sommi capi quello studio critico. A poco a poco
però, scrivendo, si lasciò vincere dalla tentazione d'incorporarlo tutto quanto
di filo nella lezione, parendogli che nulla vi fosse di superfluo, né un punto
né una virgola. Come rinunziare, infatti, a certe espressioni d'una arguzia
cosí spontanea e di tanta efficacia? a certi argomenti cosí calzanti e
decisivi? E altri e altri ancora gliene venivano, scrivendo, piú lucidi, piú
convincenti, a cui non era del pari possibile rinunziare.
Quando fu alla mattina del terzo giorno, che
doveva dettar la lezione, Bernardino Lamis si trovò davanti, sulla scrivania
ben quindici facciate fitte fitte, invece di sei.
Si smarrí.
Scrupolosissimo nel suo officio, soleva ogni
anno, in principio, dettare il sommario di tutta la materia d'insegnamento che
avrebbe svolto durante il corso, e a questo sommario si atteneva
rigorosissimamente. Già aveva fatto, per quella malaugurata pubblicazione del
libro del von Grobler, una prima concessione all'amor proprio offeso, entrando
quell'anno a parlare quasi senza opportunità dell'eresia catara. Piú d'una
lezione, dunque, non avrebbe potuto spenderci. Non voleva a nessun costo che si
dicesse che per bizza o per sfogo il professor Lamis parlava fuor di proposito
o piú del necessario su un argomento che non rientrava se non di lontano nella
materia dell'annata.
Bisognava dunque, assolutamente, nelle poche
ore che gli restavano, ridurre a otto, a nove facciate al massimo, le quindici
che aveva scritte.
Questa riduzione gli costò un cosí intenso
sforzo intellettuale, che non avvertí nemmeno alla grandine, ai lampi, ai tuoni
d'un violentissimo uragano che s'era improvvisamente rovesciato su Roma. Quando
fu su la soglia del portoncino di casa, col suo lungo rotoletto di carta sotto
il braccio, pioveva a diluvio. Come fare? Mancavano appena dieci minuti all'ora
fissata per la lezione. Rifece le scale, per munirsi d'ombrello, e si avviò
sotto quell'acqua, riparando alla meglio il rotoletto di carta, la sua
«formidabile» lezione.
Giunse all'Università in uno stato
compassionevole: zuppo da capo a piedi. Lasciò l'ombrello nella bacheca del
portinajo; si scosse un po' la pioggia di dosso, pestando i piedi; s'asciugò la
faccia e salí al loggiato.
L'aula – buja anche nei giorni sereni – pareva
con quel tempo infernale una catacomba; ci si vedeva a mala pena. Non di meno,
entrando, il professor Lamis, che non soleva mai alzare il capo, ebbe la
consolazione d'intravedere in essa, cosí di sfuggita, un insolito affollamento,
e ne lodò in cuor suo i due fidi scolari che evidentemente avevano sparso tra i
compagni la voce del particolare impegno con cui il loro vecchio professore
avrebbe svolto quella lezione che tanta e tanta fatica gli era costata e dove
tanto tesoro di cognizioni era con sommo sforzo racchiuso e tanta arguzia
imprigionata.
In preda a una viva emozione, posò il cappello
e montò, quel giorno, insolitamente, in cattedra. Le gracili mani gli
tremolavano talmente, che stentò non poco a inforcarsi le lenti sulla punta del
naso. Nell'aula il silenzio era perfetto. E il professor Lamis, svolto il
rotolo di carta, prese a leggere con voce alta e vibrante, di cui egli stesso
restò meravigliato. A quali note sarebbe salito, allorché, finita la parte
espositiva per cui non era acconcio quel tono di voce, si sarebbe lanciato
nella polemica? Ma in quel momento il professor Lamis non era piú padrone di
sé. Quasi morso dalle vipere del suo stile, sentiva di tratto in tratto le reni
fènderglisi per lunghi brividi e alzava di punto in punto la voce e gestiva,
gestiva. Il professor Bernardino Lamis, cosí rigido sempre, cosí contegnoso,
quel giorno, gestiva! Troppa bile aveva accumulato in sei mesi, troppa
indignazione gli avevano cagionato la servilità, il silenzio della critica
italiana; e questo ora, ecco, era per lui il momento della rivincita! Tutti
quei bravi giovani, che stavano ad ascoltarlo religiosamente, avrebbero parlato
di questa sua lezione, avrebbero detto che egli era salito in cattedra quel
giorno perché con maggior solennità partisse dall'Ateneo di Roma la sua
sdegnosa risposta non al von Grobler soltanto, ma a tutta quanta la Germania.
Leggeva cosí da circa tre quarti d'ora, sempre piú acceso e vibrante,
allorché lo studente Ciotta, che nel venire all'Università era stato sorpreso
da un piú forte rovescio d'acqua e s'era riparato in un portone, s'affacciò
quasi impaurito all'uscio dell'aula. Essendo in ritardo, aveva sperato che il
professor Lamis con quel tempo da lupi non sarebbe venuto a far lezione. Giú,
poi, nella bacheca del portinajo, aveva trovato un bigliettino del Vannícoli
che lo pregava di scusarlo presso l'amato professore perché «essendogli la sera
avanti smucciato un piede nell'uscir di casa, aveva ruzzolato la scala, s'era
slogato un braccio e non poteva perciò, con suo sommo dolore, assistere alla
lezione».
A chi parlava, dunque, con tanto fervore il
professor Bernardino Lamis?
Zitto zitto, in punta di piedi, il Ciotta
varcò la soglia dell'aula e volse in giro lo sguardo. Con gli occhi un po'
abbagliati dalla luce di fuori, per quanto scarsa, intravide anche nell'aula
numerosi studenti, e ne rimase stupito. Possibile? Si sforzò a guardar meglio.
Una ventina di soprabiti impermeabili, stesi
qua e là a sgocciolare nella buja aula deserta, formavano quel giorno tutto
l'uditorio del professor Bernardino Lamis.
Il Ciotta li guardò, sbigottito, sentí gelarsi
il sangue, vedendo il professore leggere cosí infervorato a quei soprabiti la
sua lezione, e si ritrasse quasi con paura.
Intanto, terminata l'ora, dall'aula vicina
usciva rumorosamente una frotta di studenti di legge, ch'erano forse i
proprietarii di quei soprabiti.
Subito il Ciotta, che non poteva ancora
riprender fiato dall'emozione, stese le braccia e si piantò davanti all'uscio
per impedire il passo.
— Per carità, non entrate! C'è dentro
il professor Lamis.
— E che fa? — domandarono quelli, meravigliati
dell'aria stravolta del Ciotta.
Questi si pose un dito sulla bocca, poi disse
piano, con gli occhi sbarrati:
— Parla solo!
Scoppiò una clamorosa irrefrenabile risata.
Il Ciotta chiuse lesto lesto l'uscio
dell'aula, scongiurando di nuovo: — Zitti, per carità, zitti! Non gli date
questa mortificazione, povero vecchio! Sta parlando dell'eresia catara!
Ma gli studenti, promettendo di far silenzio,
vollero che l'uscio fosse riaperto, pian piano, per godersi dalla soglia lo
spettacolo di quei loro poveri soprabiti che ascoltavano immobili, sgocciolanti
neri nell'ombra, la formidabile lezione del professor Bernardino Lamis.
— …
ma il manicheismo, o signori, il manicheismo, in fondo, che cosa è? Ditelo voi!
Ora, se i primi Albigesi, a detta del nostro illustre storico tedesco, signor
Hans von Grobler…
Luigi Pirandello da Novelle per un anno
Altre
novelle già inserite su Arpa eolica
post inserito il 30/04/2017
Grande Pirandello! Non m'aspettavo la pietas del Ciotta e neppure quella un po' perfida del destino che vanifica la vendetta del professor Lamis.
RispondiEliminaGrazie.
Grazie Sari per il commento, Arpa eolica continuerà con i racconti di Prirandello ed il prossimo sarà Filo d'aria - ciao
Elimina