ARTAUD – ALLA RICERCA DI UN LINGUAGGIO

Con questo post continua l’inserimento su Arpa eolica del saggio su Antonin Artaud di Federico Zaffuto – tutto il piano dell’opera su

(una nota foto di Artaud)

ALLA RICERCA DI UN LINGUAGGIO 
Il viaggio in Messico ha così costituito l’occasione per entrare in contatto con una
cultura che in qualche modo potesse fornire una prova della non arbitrarietà delle
ricerche sul linguaggio e sui segni che Artuad da tempo andava facendo. Rimane
però il dubbio se il teatro possa o meno percorrere un terreno così arduo e
apparentemente così astratto. Vi sono casi concreti di un teatro che possa essere
preso come esempio in tal senso? Sappiamo che Artaud rimase profondamente
colpito dal teatro Balinese a tal punto da considerarlo realizzazione vivente delle sue
istanze di rinnovamento. In generale egli è alla ricerca di un teatro che superi l’idea
di uno spettacolo quale mera riproposizione di un testo scritto, volendo così abbattere
lo strapotere che nella nostra cultura esercita la scrittura. Questa infatti svia rispetto
al riconoscimento dello specifico artistico proprio dell’arte teatrale. Il testo
ovviamente non scomparirà dallo spettacolo, ma verrà considerato solo come uno
degli elementi di cui esso è costituito: sarà presente «non nel suo spirito che siamo
pochissimo disposti a rispettare, ma semplicemente come spostamento d’aria provocato dalla sua enunciazione» (81). L’interesse al testo rimane, non però per il suo valore di dialogo (il dialogo è un linguaggio che pertiene alla letteratura e non al
teatro); ciò che interessa ad Artaud è l’uso della parola come emissione di suono. La
parola conserva la sua importanza se viene valorizzata nel suo aspetto sonoro, come
«intonazione»: «E ci sarebbe molto da dire sul valore concreto dell’intonazione a
teatro, sulla facoltà che hanno le parole di creare anch’esse una musica, a seconda del
modo come vengono pronunziate e indipendentemente dal loro significato concreto, o magari contro questo significato» (82). Di nuovo l’intento è quello di svincolare il
segno grafico dal suo significato, ma questa volta attraverso l’intonazione, così che il
senso delle parole si estenda oltre quello che è solito esprimere; la parola non ha più
solo la funzione di representamen ma recupera una dimensione fisica, sonora,  dotata
della capacità di scuotere il corpo: il linguaggio articolato viene frazionato e
distribuito «attivamente nello spazio, significa prendere le intonazioni in modo
assolutamente concreto restituendo loro il potere originario di sconvolgere e di
manifestare effettivamente qualcosa, significa ribellarsi al linguaggio e alle sue fonti
bassamente utilitarie, […] significa infine considerare il linguaggio sotto forma di Incantesimo» (83). Attraverso le intonazioni, ovvero il particolare modo con cui si può pronunciare una parola, si arriva a creare una condizione sensibile, che egli definisce «dissociatrice e vibratoria», che permette di svincolare la lingua dal suo compito usuale di produrre significati. 
La lingua assume ora una valenza simile a quel soggettile di cui abbiamo già parlato,
e infatti Artaud se la prende con la lingua naturale, quella della nascita, che,
anch’essa, come il supporto della sua opera grafica, va forzata: bisogna farle una
scenata, operarla, maltrattarla, renderla matta da legare. Operando in tal modo
bisogna far nascere una lingua nuova, una lingua in tal senso forsennata; Derrida al
riguardo nel suo saggio gioca coll’uso della parola e i vari significati che questa può
assumere scomponendone la struttura: in questo modo forsennare viene a esprimere
anche l’idea di un forzare fuori dal senso, un rendere folle originario, un far nascere
fuori senno. Il francese forcené (for-sen-nato) richiama infatti sia for-sens-né (fuori senso nato) sia forsé-né (forzato nato) ovvero forcé a naître (forzato a nascere).(84)
Una tale lingua sarà dunque il risultato di un’operazione che l’ha forzata a nascere
fuori senso. Artaud definisce «latino» il modo di intendere il teatro in Occidente, in
quanto sarebbe latina la necessità di ricorrere alle parole per poter esprimere idee
chiare, cosa che il suo teatro vuole superare (le idee così prodotte sono infatti
considerate «morte e liquidate»). La lingua presa di mira è la propria lingua di
nascita: «Bisogna sconfiggere il francese senza abbandonarlo, /Sono 50 anni che mi
tiene nella sua lingua./ Ora ho un’altra lingua sott’albero […] Quanto al francese, /esso rende malati,/ è il grande malato»(85). La lingua dunque deve uscire dal suo
statuto di significante per accedere ad una dimensione in cui verrà trattata come un
oggetto concreto. 
Un’immagine concreta e letterale di questa messa in spazio della parola ci viene
curiosamente restituita nei suoi disegni dell’ultimo periodo. Sappiamo che i disegni
di Artaud erano un tutt’uno con il testo scritto, non solo nel senso che questo non era
separabile dagli altri, ma soprattutto perché in queste immagini troviamo inserite
quasi sempre delle parole. Artaud stesso ci dice: «da un certo giorno dell’ottobre 1939 non ho mai più scritto senza anche disegnare»(86). L’ingiunzione per la quale non si potrà più separare il disegno dallo scritto è ulteriormente confermata dall’opera
intitolata La machine de l’être (dessin à regarder de traviole) (1946).


A. Artaud - La machine de l’être (dessin à regarder de traviole) (1946)

Questo disegno è infatti accompagnato da un testo che dovrebbe essere il suo commento ma che di fatto non lo è, perché questi due elementi rappresentano due aspetti inseparabili di un’unica opera e nessuno dei due è sottomesso all’altro, sono come due esemplari unici dello stesso evento. Ma quello che qui ci interessa maggiormente è quanto avviene nella parte grafica di quest’opera, dove vediamo inserite delle parole. Esse sono distribuite sul foglio quasi a voler confermare in modo didascalico quella operazione di messa in spazio della lingua di cui parlavamo. Troviamo infatti qui presenti i termini «in basso», «sotto» e «destra» che nel disegno vengono inseriti nei rispettivi punti spaziali che le parole indicano. Con questo disegno ci troviamo davanti ad una vera e propria esecuzione grafica della messa in spazio della parola.
Dunque anche l’opera grafica assume su di sé il compito di forzare la lingua dandole
uno statuto differente da quello abituale; ma è nel teatro che per primo viene fatta
l’operazione della messa in spazio della parola. Anzi, la parola usata nella sua
valenza di «intonazione» che assume un valore di oggetto concreto è alla base della
ricerca di un linguaggio unico e precipuo per il teatro. Come per tutte le arti infatti,
anche il teatro dovrebbe avere un linguaggio che gli è specifico e che gli appartiene,
e questo non può essere in comune con un'altra arte. Se la parola è il linguaggio di
cui si serve la letteratura, questo deve essere differente per il teatro, a meno che non
si voglia sostenere che due arti diverse utilizzano la stessa forma espressiva. Se non
si vuole appiattire il teatro sulla letteratura, bisogna trovare un linguaggio «fisico»,
«concreto», dove gli oggetti concreti, i gesti, le grida e ogni elemento preso sulla
scena, possono diventare l’estensione del suono della parola, a patto però che
anch’essa sia diventata un vero e proprio oggetto presente nello spazio: «Si può
sostituire alla poesia del linguaggio una poesia dello spazio, che si svilupperà appunto nel campo che non appartiene rigorosamente alle parole» (87). Bisognava
dunque allontanarsi da un linguaggio di parole senza spazio, per poterne creare uno
che non fosse separato dal corpo, utilizzando tutti i mezzi a disposizione del teatro e
fondendo tutti i linguaggi che esso utilizza e prende in prestito dalle altre arti, in
modo da poter costituire quella che egli definisce una «pantomima non pervertita».
Questa si distanzia assolutamente da quella pantomima, tipica del teatro occidentale,
che a sua volta deriva da una deformazione di quella creata dalla vecchia commedia
dell’arte. 
 (immagine fuori testo - la gestualità del teatro Balinese)


I gesti così prodotti sulla scena devono costituire l’alfabeto di un «geroglifico
animato», dove il corpo dell’attore non è altro che uno degli elementi che va a
comporre questo linguaggio fisico, basato appunto sui segni e non più sulle parole.
Artaud considera un esempio teatrale concreto di creazione di questo linguaggio gli
spettacoli del teatro Balinese. Innanzitutto ci dice che questo genere di messa in
scena colpisce con violenza il nostro intuito facendoci provare un’esperienza non più riconducibile a nessun tipo di «linguaggio logico e descrittivo» (88). È come se tutti i
linguaggi contribuissero a costituire un unico gesto dove una musica può essere
l’estensione di una parola, o un grido quella di un movimento e dove «i sospiri di uno
strumento a fiato prolungano le vibrazione delle corde vocali con un tale senso di
identità che non si sa più se è la voce a prolungarsi o il senso ad averla assorbita sin dalle origini»(89). I richiami tra un’espressione e l’altra non sono arbitrari e anzi hanno un preciso valore, infatti se ne riesce ad intuire la loro oggettività, come valeva per i segni presenti nel villaggio dei tarahumara.
 I movimenti che compiono gli attori sulla scena hanno già una valenza musicale, e i rumori e i suoni prodotti dall’orchestra non sembrano altro che il commento se non addirittura l’estensione di essi; così che tutto si compone secondo l’immagine di una grande sinfonia non fatta più solo di suoni ma anche di immagini e di luci. Ogni elemento contribuisce in questa direzione, fino ai costumi ed addirittura alle acconciature delle attrici, create in modo tale da poter seguire naturalmente e armoniosamente i gesti e i movimenti del corpo, «e i cui crinali, tremando ritmicamente, rispondono in modo intelligente, o così almeno sembra, ai sussulti del corpo»(90). «In modo intelligente» perché, come abbiamo già più volte detto, questi segni non sono costituiti a capriccio ma seguono un particolare criterio di composizione che, pur non essendo quello simbolico delle lingue naturali, ha non di meno una sua coerenza; tant’è vero che ogni aspetto di questo spettacolo è
precisamente calibrato e, ci dice Artaud, su di esso aleggia un forte senso di
«intellettualità». Si tratta però di una sorta di razionalità del tutto differente da quella
usuale e che ci permette di cogliere i gesti, i suoni, e le grida come elementi
terribilmente interconnessi tra loro e privi di soluzione di continuità. Vi è una
transizione che va dall’uno all’altro, per niente arbitraria, ma che rimanda ad un
senso di cui però non riusciamo a cogliere il criterio: «Tutto si fonde quasi passasse attraverso bizzarri canali scavati all’interno dello spirito!» (91). Sono questi i segni vivi di cui dovrebbe essere costituito l’alfabeto di quei «geroglifici viventi» che sono la base del linguaggio teatrale. 
Un linguaggio, ci dice Artuad, che è costituito per i sensi e non per l’intelletto. Ma
questo linguaggio che unisce aspetti visivi e sonori come può avere una coerenza
interna? Come può un suono rimandare in modo oggettivo a qualcosa che pertiene
alla vista? Se un suono può richiamare in modo non arbitrario un gesto, tant’è vero
che lo spirito riconosce e accoglie questa comunicazione, vuol dire che i due hanno
qualcosa in comune oppure che i sensi a loro deputati forse non sono poi così
separatamente orientati come pretende una visione scientificamente anatomica del
corpo umano. La possibilità di un teatro va di pari passo allora con la possibilità di
concepire il corpo dell’uomo in modo assolutamente diverso da quello che la nostra
abituale visione dell’anatomia umana fornisce; solo così si può pensare di ottenere
che le dissonanze prodotte dai suoni non rimangano all’interno dell’«orbita di un
solo senso» e possano essere fatte «passare da un senso all’altro, da un colore a un
suono, da una parola a una luce, da una trepidazione di gesti a una tonalità piana di suoni ecc. ecc.» (92). 
Ancora una volta è la pittura che può essere utile per fornire un esempio in questa
direzione. È analizzando un’arte che si rivolge apparentemente ad un solo senso che
meglio possiamo vedere se sono possibili delle condizioni di sinestesia; il teatro
infatti, operando con vari linguaggi espressivi che si indirizzano verso più sensi,
potrebbe trarre in inganno rispetto alla possibilità di verificare il manifestarsi di una
reale condizione di sinestesia. Secondo Artaud vi è una certa pittura che si presenta
come una vera e propria pittografia e che si lascia ascoltare come musica. In questo
caso l’orecchio è scosso dal suono prodotto dall’atto pittorico che colpisce, perfora,
bombarda e che, attraverso questi gesti, tramite il colore gettato sulla tela, genera la
sensazione dello sprigionarsi di una musica.


Le figlie di Loth (1509 ca.) di Luca di Leida

Non è un caso che ne Il teatro e il suo doppio è un’opera pittorica, ovvero Le figlie di Loth (1509 ca.) di Luca di Leida, a fornire esempio di che cosa dovrebbe essere «la metafisica in atto» nel teatro,: «Affermo in ogni modo che questo dipinto è ciò che dovrebbe essere il teatro, se esso sapesse parlare il linguaggio che gli è proprio» (93). Ora, se come abbiamo precedentemente affermato, il linguaggio teatrale si esprime in una pluralità di linguaggi che colpiscono, mettendo in moto, tutti gli organi di senso, questo quadro, se può essere preso da esempio di come deve essere costituito il teatro, deve in qualche modo produrre una simile condizione sensoriale. Questa idea di sinestesia ci viene confermata dal fatto che, secondo Artaud, una certa pittura, quella che oltrepassa «la pittura capace solo di dipingere», può essere considerata un’arte dell’orecchio; riguardo a Le figlie di Loth infatti scrive: «Prima ancora di vedere di che si tratta, si intuisce di aver davanti qualcosa di grande, e l’orecchio ne è scosso nello stesso tempo che l’occhio» (94). Ma che cos’è che in questa pittura assicura l’analogia tra il visibile e l’udibile? Artaud ci descrive la tela e si concentra ad un certo punto sulla presenza di un lampo e la sensazione di «fragoroso schianto» che esso restituisce: «Nel crepitio di un fuoco d’artificio, attraverso il bombardamento notturno delle stelle, dei razzi, delle bombe solari, vediamo d’improvviso rivelarsi ai nostri occhi in una luce allucinata certi particolari del paesaggio, in rilievo sullo sfondo notturno: alberi, torri, montagne, case, la cui illuminazione e la cui apparizione rimarranno definitivamente legate nel nostro spirito all’idea di questo fragoroso schianto» (95). In effetti la tela non dipinge un semplice fulmine, ciò che avviene nel cielo nuvoloso è una vera e propria esplosione, dalla quale si dipartono materiali infuocati non bene identificabili. Ci viene restituita l’immagine, che sarà poi presente nei suoi disegni, di un’effrazione della superficie o del supporto attraverso la detonazione di bombe, il lancio di proiettili; una detonazione che è difatto sonora e che potremmo quasi definire intonazione. (96) Qualcosa che ha la forza di distruzione cade dall’alto verso il basso per colpire la superficie, il supporto, venendo letteralmente a bombardarlo e a lacerarlo. Tale esplosione è allo stesso tempo un bombardamento visibile («bombe solari») ma anche una lacerazione sonora. Questa distruzione, questa lacerazione è lo stesso destino che avevamo visto essere riservato al linguaggio a cui bisognava restituire le sue «possibilità di scuotimento fisico» (97). 
Il bombardamento, la lacerazione sonora, è qualcosa che contraddistingue anche la
pittura di quello che Artaud considererà, alla fine del suo percorso, essere il più
grande pittore di tutti i tempi, ovvero Van Gogh: «Vedo, nell’ora in cui scrivo queste
righe, il volto rosso insanguinato del pittore venire verso di me, in una muraglia di
girasoli sventrati, in un formidabile avvampare di faville giacinto opaco. […] Tutto
questo, in mezzo a un bombardamento quasi meteorico di atomi che apparissero sgranati ad uno ad uno» (98).

 autoritratto Van Gogh

 Poco più avanti Van Gogh viene definito «formidabile musicista», «organista», i rimandi a una pittura che può essere colta con l’udito oltre che con la vista sono molti: la pittura, che è arrivata al livello in cui la porta il genio di Van Gogh permette di superare l’abituale esperienza sensoriale dell’uomo; così che il tratto pittorico si prolunga oltre la tela assumendo in questo modo una valenza sonora. Dipingere una realtà che è oltre la realtà della natura, rivolgendosi allo sguardo dell’uomo che è un occhio-orecchio dove le due funzioni si fondono insieme, significa ricreare la natura sia dal punto di vista del soggetto che si rappresenta che di quello dell’uomo che lo osserva. Questo è ciò che fa la pittura di Van Gogh, una pittura che, ci dice Artaud, dipinge non un racconto, o un dramma, o una storia, e neanche più un soggetto o un oggetto ma un «motivo». Un motivo che non sta ad indicare un tema, ma che rievoca precisamente l’espressione musicale, e Artaud ce lo dice chiaramente: «...perché il motivo stesso che cos’è? Se non qualcosa come l’ombra di ferro del mottetto di un’antica musica inenarrabile, come il Leitmotiv di un tema che dispera del proprio soggetto» (99).


Van Gogh la sedia di Gauguin

La pittura diventa così una questione di sonorità, di timbro, di intonazione, di vibrazione, l’estrema tensione di una polifonia, e può così riprodurre quel suono originale che gli oggetti della vita reale hanno (100); proprio come nel quadro dedicato a Gauguin, dove «la luce della candela suona […] accesa sulla poltrona di paglia verde suona come il respiro di un corpo amante davanti al corpo di un malato addormentato» (101).   RITORNA A L’INDICE DEI CAPITOLI

NOTE
81 A. Artaud, “Il Teatro Alfred Jarry” (1926), tr. it. di E. Capriolo in Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 2000, pp. 5-10, qui p. 10.
82 A. Artaud, “La messa in scena e la metafisica” (1932), tr. it. di E. Capriolo in Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 2000, pp. 151-164, qui pp. 155-156.
83 Ivi, p. 63.
84 cfr. J. Derrida, “Forsennare il soggettile”, in Antonin Artaud Dessins et portraits, Gallimard, Paris 1978, tr. it. di A. Cariolato, Abscondita, 2005 Milano.
85 Ivi, pp. 19-20. Il testo citato è di Artaud.
86 Ivi, p.75.
87 A. Artaud, “La messa in scena e la metafisica” (1932), tr. it. di E. Capriolo in Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 2000, pp. 151-164, qui p. 156.
88 A. Artaud, “Sul teatro Balinese” (1931), tr. it. di E. Capriolo in Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 2000, pp. 170-184.
89 Ivi, p. 172.
90 Ivi, p. 175.
91 Ivi, p. 174.
92 A. Artaud “Il teatro della crudeltà. Secondo manifesto” (1933), tr. it. di E. Capriolo in Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 2000, pp. 236-241, qui p. 239.
93 A. Artaud, “La messa in scena e la metafisica” (1932), tr. it. di E. Capriolo in Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 2000, pp. 151-164, qui p. 154.
94 Ivi, p. 151.
95 Ivi, p. 152.
96 Su questo tema si veda il testo di Derrida Forsennare il soggettile, qui egli individua in particolare nella pittura che riproduce immagini di violente esplosioni, oppure come in Van Gogh, che usa il pennello come arma per scagliare veri e propri proiettili, l’aspetto che principalmente permette la fusione tra il visibile e l’udibile. Tutte queste azioni mirano infatti alla forzatura del soggettile e conducono alla creazione di un motivo musicale: «L’alternativa non oscilla soltanto fra la rappresentazione e il suo altro, una pittura rappresentativa e il suo al di là, ma anche fra l’inerte e ciò che esplode (jaillisant), l’esser-morto di colui che giace e l’impeto del getto (jet), del proiettile (projectile) o della giaculazione (jaculation), del “far esplodere (jaillir) una forza tortuosa”. Questa esplosione (jaillisement) (soffio, fuoco, aria, suono, intonazione, tuono, detonazione, bombardamento, soffio dell’esplosione) non deriva da un essere originario, essa dà l’essere all’essere, fa nascere, l’essere ne nasce piuttosto che lasciarsi determinare o rappresentare da essa. Nasce nel getto, l’invio, lo slancio, il missile o, letteralmente, la missiva. Conseguenza di questa apparente contraddizione e di questa tensione vibratoria: il motivo.» In J. Derrida, “Forsennare il soggettile”, in Antonin Artaud Dessins et portraits, Gallimard, Paris 1978, tr. it. di A. Cariolato, Abscondita, 2005 Milano, qui p. 49. 
97 A. Artaud, “La messa in scena e la metafisica” (1932), tr. it. di E. Capriolo in Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 2000, pp. 151-164, qui p. 163.
98 A. Artaud, Van Gogh il suicidato della società, tr. it. di J.-P. Manganaro, Adelphi, Milano 2010, qui pp. 46-47.
99 Ivi, p. 44.
100 “Così, nessuno dopo Van Gogh avrà saputo scuotere il grande cimbalo, il timbro super-umano, perennemente super-umano, secondo il cui ordine rimosso suonano gli oggetti della vita reale”. Ivi, p. 30.
101 Ibidem. Il quadro qui in riferimento è La sedia di Gauguin (1888).



2 commenti:

  1. Un magnifico, completo, ponderoso saggio sull'opera e la persona di Antonin Artaud, che nasce da una corrispondenza col di lui pensiero insieme ad una conoscenza attenta e approfondita.

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  2. Grazie, poche volte ho avuto il piacere di una descrizione così profonda e magica del pensiero di
    Artaud, così difficile da decifrare, sul linguaggio e il suo uso in teatro.
    Vorrei un giorno farne esperienza a teatro, ma dove ?

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