Con questo post continua
l’inserimento su Arpa eolica del saggio su Antonin Artaud di Federico Zaffuto –
tutto il piano dell’opera su
Artaud - autoritratto
DISSOLVERE LE
FORME: IL TEATRO E IL RITO
Nel
capitolo precedente abbiamo potuto vedere come, secondo Artaud, l’arte possa
essere
considerata uno strumento per poter scomporre e dissezionare la realtà e
quanto
ciò costituisca l’opportunità per trovare un percorso attraverso cui ricreare
la
vita:
questo arriva ad essere la missione, se non addirittura la motivazione stessa
una
dimensione del tutto nuova ed originale, tale da permettergli la liberazione di
quelle
forze che la cultura e la società hanno ingabbiato a seguito di una specifica
decisione
di mondo. Nel 1935 scriveva: «Se la nostra vita manca di zolfo, cioè di una
costante
magia, è perché ci compiacciamo di contemplare le nostre azioni e di
perderci
in riflessioni sulle forme fantasticate delle azioni, anziché lasciarci
condurre da esse»(51). Egli è convinto che la cultura occidentale abbia perduto
il segreto delle
forze
che agiscono dietro alla vita, come dirà espressamente l’anno seguente nelle
sue
conferenze messicane: «Una testa di europeo oggi è uno scantinato dove si
muovono delle ombre senza forza, che l’Europa piglia per i suoi pensieri»(52).
Le
ombre
senza forza sono le immagini che produrrebbe lo sguardo contemplativo del
pensiero
occidentale, fermo in una sorta di stasi visuale che lo blocca nelle forme
delle
proprie azioni anziché riuscire a cogliere l’energia che vi si nasconde, la
spinta
magica
che sottostà dietro ogni atto: in una parola la magia. Ecco perché l’arte deve
avere
il compito di ricollocare l’uomo in una dimensione altra rispetto a questa
condizione
statica. I suoi disegni dell’ultimo periodo erano infatti un tentativo di
rendere
visibili delle forze senza passare per la loro messa in scena. Questa
impossibilità,
questa difficoltà insormontabile, era in fondo l’esperienza più propria
della
sua opera grafica, ovvero il tentativo di raffigurare una forza facendo a meno
della
rappresentazione che, sola, può dare luogo a qualcosa di visibile, o meglio a
una
visibilità. Ma
l’esito a cui era arrivato tramite i propri disegni, costituisce il compimento
di unaricerca
sull’arte che aveva individuato nel teatro l’espressione artistica migliore persuperare
quella scissione che il pensiero occidentale avrebbe prodotto tra le cose e leparole,
tra i segni e i significati, in sintesi: tra la cultura e la vita. In questo
senso cidobbiamo
chiedere come Artaud pensava di poter realizzare tramite il suo teatrodella
crudeltà, attraverso un uso magico dello spazio scenico, la riunificazione di
ciòche
la cultura aveva separato: l’attore e il pubblico, l’autore e il regista, il
linguaggio sonoro
con quello visivo, gesti, movimenti, grida, luci. Egli voleva creare uno
spettacolo
in grado di produrre una sorta di contagio a distanza del pubblico, di
esorcismo,
tale da far vibrare la realtà: è «in questa prospettiva magica e stregonesca»
che «lo spettacolo deve essere considerato»(53). Questo doveva essere il
primo
passo concreto verso la ricerca di quella magia, di quello «zolfo» che la
nostra
cultura
occidentale aveva perduto.
(immagine fuori testo - una messe in scena del teatro della crudeltà)
Analogamente
in questa direzione di recupero di una dimensione magica, dobbiamo
considerare
il viaggio che nel 1936 Artaud intraprenderà in Messico alla ricerca delle popolazioni
autoctone del luogo.
Al
Messico, visto come civiltà ideale da contrapporre
all’Europa (in quanto non contaminato da quel pensiero occidentale che, come
abbiamo visto, aveva prodotto tanti danni), probabilmente pensava da tempo, se
già nel 1931 in appendice al Secondo manifesto de Il teatro della crudeltà inserisce
lo scenario di quello che doveva essere il primo spettacolo della stagione intitolato
La conquête du Mexique. In questo testo la contrapposizione tra le due civiltà
(quella europea e quella messicana) avviene su tutti i piani: religioso,
politico (critica del colonialismo) e sociale (le antiche civiltà messicane
avevano costituito «una società che sapeva dar da mangiare a tutti i suoi
membri»(54). In generale vi troviamo ogni tipo di considerazione che porti a
screditare l’ideologia della superiorità delle culture europee e quindi la
motivazione con la quale queste si sono arrogate il diritto di conquistare le
altre popolazioni.
Ma
al di là delle questioni storiche e politiche, che cos’è che Artaud sta
cercando
presso
le civiltà indigene messicane? Come questa esperienza può convergere nella
sua
ricerca teatrale? Ricordiamo quanto aveva detto nel manifesto del 1931, dove si
sosteneva
come il suo teatro intendesse rivolgersi «all’uomo totale […] E nell’uomo
terrà
conto non soltanto del recto ma altresì del verso dello spirito; la realtà
della
fantasia
e dei sogni apparirà sullo stesso piano della vita»; e poco più avanti:
«L’accavallarsi
delle immagini e dei movimenti condurrà, mediante collusioni
d’oggetti,
silenzi, grida e ritmi, alla creazione di un autentico linguaggio fisico
fondato sui segni e non più sulle parole» (55). Egli non è solo alla ricerca di
una
dimensione
magica ma anche e soprattutto di un linguaggio capace di esprimere il senso che
avevano gli «antichi geroglifici» (56) e crede di poterlo ricostruire
attraverso lo studio di una cultura che potremmo definire incontaminata. Artaud
però non intraprende uno studio etnologico o antropologico su queste
popolazioni, vuole
un’esperienza
diretta che non sia in nessun modo mediata da alcun elemento della
cultura
occidentale. Nel 1936 quindi parte per il Messico alla ricerca di una civiltà
che
non abbia perso la vera sorgente di ispirazione legata alle dinamiche segrete
della
vita;
e il resoconto che ci fa di questa esperienza è totalmente compenetrato di uno
stato
di coscienza simile a quello delle popolazioni autoctone. D'altronde egli
stesso
in
una lettera del 1945 scriverà, ripensando a questa esperienza: «Non sono andato
al
Messico
per fare un viaggio d’iniziazione o di piacere da raccontare poi in un libro
che
si può leggere accanto al fuoco; ci sono andato per ritrovare una razza che
potesse seguirmi nelle mie idee»(57).
(immagine fuori testo - comunità di indiani tarahumara )
Ed in effetti approcciando il testo, ad una
prima lettura, questo sembra non poter
essere intellegibile ad una mente di europeo, Artaud infatti scrive in totale assonanza col modo di
compenetrare la realtà delle popolazioni indigene: non cerca di interpretare i simboli,
li descrive soltanto. Si può rimanere completamente disorientati nella lettura
del testo La montagna dei segni dove le immagini che appaiono guardando il
monte che sovrasta il villaggio dei tarahumara vengono descritte come le
narrerebbe un bambino: «Ho visto dalla montagna un uomo nudo sporgersi da una
grande foresta. La testa non era che un grande foro, una sorta di cavità
circolare dove volta a volta e secondo le ore appariva il sole o la
luna»(58).
Che cosa sta facendo qui Artaud? Ci sta descrivendo un monte che produce delle
immagini di personificazioni viventi di esseri umani. Il testo è puramente descrittivo
e la montagna viene raccontata come dalla coscienza di un bambino. È proprio
uno stato di coscienza del genere che può permettere di vedere animati gli oggetti
che non lo sono, specie quelli della natura. È molto simile a quel sentimento
che Jentsch ha definito perturbante (59) e che viene colto soprattutto
nell’infanzia, quando si ha un modo di guardare il mondo lontano dalla dinamica
razionale dei fatti (60): questo stato di coscienza permette di riconoscere dei
segni che sono presenti nella natura ma che normalmente non appaiono. Artaud ci
descrive la roccia del monte che prende forma di «corpo d’uomo torturato» e ci
dice che non bisogna credere che il prodursi di determinate forme avvenga per
puro «capriccio», infatti queste
immagini continuano ad apparire, sempre le stesse, ogni giorno chiare e
distinte.
Egli è ben consapevole di come le visioni si formino attraverso un gioco di
luce sulla roccia, (61) ma questo non
cambia l’importanza di questa esperienza. Le
immagini
che si manifestano sulla montagna dei segni sono visibili solo ad un
determinato
sguardo: ciò è possibile solamente se si riescono a superare le
concatenazioni
logiche del pensiero per affidarsi ai simboli naturali che si presentano
attraverso
questi segni. Qui Artaud sta tentando di risalire ad un tipo di pensiero
analogico
o primitivo che gli permetta di fare esperienza di un linguaggio che il
pensiero
occidentale non può riconoscere. Aderire ad uno stato di coscienza infantile
dà
la possibilità di cogliere una realtà differente, e anche se questa condizione
non è
espressamente
richiamata in questo testo, il modo volutamente ingenuo di descrivere
le
esperienze riporta immediatamente ad essa e ci fa rivenire in mente ciò che
dirà
riguardo
ai propri disegni nell’ultimo periodo e che abbiamo citato precedentemente
nel
primo capitolo: «La pagina è lordata […] la carta spiegazzata, i personaggi
disegnati dalla coscienza di un bambino»(62).
Quei
segni, che solo un particolare stato di coscienza può cogliere, sono da
considerarsi
comunque oggettivi, infatti, a quanto ci dice Artaud, gli indigeni del
luogo
vedevano esattamente le stesse identiche forme da lui osservate. I segni
dunque
non sono soggettivi, non sono il risultato di una visione distorta o
eccessivamente
fantasiosa, tant’è vero che gli indigeni del luogo li hanno riprodotti e
disseminati
dappertutto nei lori villaggi e gli stessi sono presenti e vengono ripetuti
anche
nei riti e nelle loro danze.
(immagine fuori testo - indiani tarahumara)
Vi
sarebbe dunque una consapevolezza in questa capacità di saper cogliere il
segno, tanto che Artaud ci parla di un vero e proprio linguaggio che affonda in
una conoscenza antecedente quella delle nostre lingue naturali: «Quando un intero
paese svolge sulla pietra una filosofia parallela a quella degli uomini; quando
si sa che i primi uomini si servirono di un linguaggio di segni e si ritrova
quella lingua enormemente ingrandita sulle rocce, certo non si può più pensare
che si tratti di un capriccio e che questo capriccio non significhi niente»(63).
Ora,
sappiamo che da tempo Artaud era alla ricerca di un rinnovamento del teatro
che
partisse dal linguaggio e proprio sul segno aveva svolto alcune delle
principali
osservazioni:
nel teatro Balinese ad esempio vedeva
una strada da seguire in quanto
era
stato capace di creare «un linguaggio fisico basato sui segni e non più sulle
parole» dove «gli attori […] paiono geroglifici animati» (64).
(immagini fuori testo - attore del teatro Balinese in strada)
Ma perché è così centrale una riflessione che
verta proprio su questo tema? Ancora una volta il problema è legato alla
rappresentazione. Ricordiamo che per Artaud tutta l’arte non si deve limitare a
imitare la realtà e fornirne una copia, ma deve essere in un certo senso rigettata
nella vita. Consideriamo il segno nella sua logica del senso, esso rimanda sempre
al significato che rappresenta e di per sé non è mai qualcosa ma rinvia a qualcos’altro:
dovendo significare, è impossibilitato ad essere ed un teatro che si esprime in
segni è obbligato a rappresentare. Ma un teatro che non si vuole che imiti la
vita deve in qualche modo tentare di recuperare la dimensione viva dei segni:
questi
non dovranno più rinviare ad un significato (per lo meno logico,
interpretabile)
ma
dovranno essere posti in una dinamica di continua produzione di senso e di
realtà,
e
non di riproduzione di qualcosa che già esiste. In questo modo si capisce come
il teatro possa essere considerato «un mezzo per rifare la vita» (65). Ecco
perché il viaggio intrapreso in Messico ci viene riportato in modo puramente
descrittivo e di tutte le immagini non si dà nessun tentativo di fornire
un’interpretazione, non si tratta del punto di vista di un visionario, Artaud
qui non vuole e non può spiegare i segni che vede: individuarne un significato
eventuale sarebbe come farli uscire da quello
statuto
di produzione di senso che invece sta proprio cercando. Questo ci riporta
direttamente
ai disegni che non significavano nulla, che abbiamo analizzato nella
prima
parte del testo; queste forme non rimandano ad alcun significato razionale, ma
ciò
non vuol dire che sono arbitrarie. Esse infatti sono colte in modo identico
dagli
abitanti
indigeni e, ci dice Artaud, sembrano ubbidire ad un loro senso: «Quella
figura
era nota agli Indi; per la composizione, per la struttura, mi parve ubbidire al
medesimo principio a cui ubbidiva l’intera montagna» (66).
Questi
segni sono talmente poco arbitrari che Artaud vi individua un richiamo
esplicito
nei pittori italiani anteriori al Rinascimento, a sua detta «iniziati a una
scienza segreta» (67). Ritornano ancora in questo testo pittori come Piero
della
Francesca,
Luca di Leida, Fra Angelico, Piero di Cosimo, Mantegna che, soprattutto
quando
dipingono il tema della Natività, hanno saputo cogliere nel colore del cielo
delle
loro tele lo stesso magico azzurro che sovrasta le montagne messicane. Tanto
poco
mossi, secondo Artaud, dal dipingere un tema religioso, quanto piuttosto dal
mostrare
con la loro pittura l’«Essenziale» che si nasconde nella Natura avendo
questi
una vera e propria «ossessione naturale […] per il Come e il Perché dei
princìpi
e delle esplosioni primitive della Natura, che la leggenda Pagana del Natale ha
manifestato» (68). Poco dopo apprendiamo che presso i tarahumara tutto parla
secondo
quei princìpi, gli stessi secondo cui la natura si è formata «e tutto vive per
quei
princìpi: gli Uomini, le tempeste, il vento, il silenzio, il sole» (69).
Cogliere questo aspetto della vita era
uno degli scopi essenziali del nuovo teatro. Risulta allora meno oscuro uno dei
passaggi più famosi ed emblematici che viene spesso citato da Il teatro e il
suo doppio: «Il teatro deve essere a sua volta considerato il Doppio, non di quella
realtà quotidiana e diretta di cui a poco a poco è divenuto soltanto la copia inerte,
vana quanto edulcorata, ma di una realtà rischiosa e tipica, dove i principî, come
i delfini, una volta mostrata la testa, s’affrettano a reimmergersi
nell’oscurità delle acque»(70).
Lo
stato di coscienza che permette di accedere a queste esperienze non è uno stato
di
coscienza
alterato, semmai differente, se non addirittura superiore. In questo senso
siamo
ancora una volta ben lontani da quello che propugnavano i surrealisti,
mediante
metodi come la scrittura automatica e, in alcuni casi più estremi, il ricorso
alle
droghe. Anche il surrealismo cercava infatti un modo di composizione della
realtà
differente dall’usuale, ma era convinto che questo potesse avvenire in modo
meccanico,
accedendo ad uno stato di coscienza alterata. Emblematico in tal senso è
vedere
il ruolo che a volte veniva affidato alle droghe, proprio perché in questo caso
abbiamo
elementi ulteriori di confronto con Artaud; l’esperienza che questi fece in
Messico
prevedeva infatti la partecipazione a quello che era definito il rito del
peiote.
Per
capire che considerazione avessero i surrealisti riguardo alle sostanze
allucinogene
occorre rifarsi a Breton e al suo Manifeste del 1924 dove il Surrealismo
viene
paragonato ai paradisi artificiali creati dall’oppio, dall’hashish e
dall’alcol,
dove
si sostiene che questi ultimi, come il primo, evocano immagini spontanee che
non si possono congedare perché la volontà non è più controllabile;(71) vediamo
come ancora una volta (analogamente alla tematica del mondo onirico di cui
abbiamo
precedentemente
parlato) vi sia una ricerca di uscita dallo stato di coscienza abituale
verso
l’esperienza dell’irrazionale che da sola fornirebbe la possibilità di accedere
ad
immagini
visionarie di sicuro valore. Anche su questo piano vi è tra questa visione e
quella
di Artaud una posizione specularmente opposta. Dal resoconto del suo viaggio
in
Messico apprendiamo infatti che Artaud partecipò al rito del peiote, un rito di
guarigione
al termine del quale veniva consumata questa sostanza in piccole dosi.
(immagine fuori testo - il rito del peyote)
La
motivazione della sua partecipazione era innanzitutto terapeutica: poiché la
sua malattia (72) era stata curata
attraverso la somministrazione di droghe quali l’oppio e ad un certo punto
addirittura l’eroina, egli cercava una sorta di purificazione da queste sostanze,
una specie di lavacro attraverso l’esperienza di una droga «positiva»,
rituale
e collettiva, il peiote appunto, che doveva diventare così la sostanza
purificatrice, il farmaco della nuova salute.(73) Ma è interessante a questo
riguardo
osservare
quale era l’opinione che egli aveva circa il suo uso e gli effetti da esso
prodotti:
«Prendere i vostri sogni per delle realtà – ecco ciò in cui il Peyotl non vi
lascerà
mai sprofondare – dove confondere percezioni improntate ai bassifondi
sfuggenti,
incolti, non ancora maturi, non ancora sorti dell’inconscio allucinatorio con
le immagini, le emozioni del vero»(74). Egli non è mai alla ricerca di uno
stato di
coscienza
allucinatorio che sfoci nell’irrazionale, e questo (come era già per la
ricerca
di una vera dimensione onirica) lo distanzia assolutamente dalla posizione dei
surrealisti
e lo avvicina invece a quella che doveva essere l’esperienza che gli
indigeni
cercavano davvero nella somministrazione di queste sostanze; come ci
conferma
l’antropologo Lanternari che si è occupato esplicitamente del Peiotismo nel
suo
saggio sui movimenti religiosi dei popoli oppressi: «Il peiote è una pianta la
cui
ingestione
produce effetti fisiologici particolari […] D’altra parte l’impiego che gli
indiani
ne fanno è esclusivamente rituale, e appare pertanto un nonsenso voler ridurre
il peiote a una sorta di “paradiso artificiale”»(75). Nessuna ricerca di uno
stato di
coscienza
alterato e di visioni allucinate dunque. Anzi Artaud ci dice espressamente
che
questa sostanza aiuta a distinguere le percezioni e le visioni false (di cui
accenna
aver
avuto esperienza prima della sua somministrazione senza però entrare nel
dettaglio)
da quelle vere, proprio l’opposto dunque della ricerca di uno stato di
coscienza
alterato: «Il Peyotl, per quel che ho visto, fissa la coscienza e le impedisce
di smarrirsi, d’abbandonarsi alle impressioni false»(76). Ma
che tipo di coscienza bisogna avere per sapere cogliere i segni viventi della montagna
dei segni e il valore del rito del peyote? Precedentemente non a caso avevamo
nominato il sentimento del perturbante, condizione nella quale ci si trova quando
attraversiamo un’ esperienza che destabilizza le nostre abitudini
intellettuali. Di
fronte ad uno stato simile, arriviamo a provare una sensazione non proprio dipaura,
ma di inadeguatezza; è come se questa esperienza, nel momento in cui laviviamo,
ci mettesse davanti ad una realtà non più ricongiungibile con le nostreabituali
determinazioni di mondo. Questa dimensione, che una mentalità razionale potrebbe
definire alterata, è simile alle sensazioni che provano gli indigeni nel
sentire nominare la parola Ciguri (termine che questi usano alternativamente a
Peyotl).
Artaud
ci dice che chi era incaricato ad accompagnarlo al villaggio gli aveva riferito
che
i tarahumara hanno paura di sentire il nome Ciguri. Poco più avanti però
apprendiamo
l’inesattezza di questa considerazione, quello che essi provano non è
esattamente
un sentimento di paura, ma una sorta di horror sacri: «CIGURI è un
nome
che alle orecchie degli Indi non piace sentir nominare […] Ora, mi accorsi che
se
vi è un sentimento a quel proposito che può esser loro estraneo è proprio la
paura,
ma
che invece quella parola risveglia in loro il senso del sacro in modo che la
coscienza europea non conosce più» (77). Capiamo innanzitutto che vi è un
rapporto
con
la parola del tutto particolare per queste popolazioni: nominare qualcosa
significa
portare alla presenza reale ciò che si nomina, ecco che dunque il segno
sonoro
in questo senso non è solo una rappresentazione di qualcosa che sta per, ma
una
vera e propria presenza vivente. E qual è il genere di sentimento che si prova
di
fronte
a queste manifestazioni che potremmo definire viventi? Lo stato d’animo che
gli
indigeni provano quando si nomina loro la parola Ciguri viene così descritto:
«Un
terrore,
devo dire, si sprigionava infatti dal suo atteggiamento, ma non gli
apparteneva,
perché esso lo ricopriva come d’uno scudo o d’un mantello. Lui,
sembrava
felice come lo si è solo negli attimi supremi dell’esistenza, con il volto
traboccante di gioia e in adorazione»(78).
Recuperare
un segno che faccia vivere questa esperienza di sacro terrore di cui
abbiamo
parlato, questo era ciò che cercava Artaud nel suo teatro, ecco perché egli fa
spesso
riferimento a termini come «terrore», «crudeltà» ed è alla ricerca di un teatro
che
destabilizzi il pubblico, un pubblico che deve uscire totalmente scosso dopo la
visione
dello spettacolo.
Questa violenza non è gratuita, non è derivante da un disordinato e irrazionale uso di ciò che viene definito crudeltà, anzi vi deve essere, a detta di Artaud, una precisa conoscenza tecnica e una sveglia coscienza per arrivare ad esprimere la vera essenza di questo concetto: «Dal punto di vista dello spirito, crudeltà significa rigore, applicazione e decisione implacabile, determinazione irreversibile, assoluta […] È un errore attribuire al termine “crudeltà” un senso di spietata carneficina, di ricerca gratuita e disinteressata del male fisico […] non è sinonimo di versamento di sangue, di carne martoriata, di nemico crocifisso […] La crudeltà è prima di tutto lucida, è una sorta di rigido controllo, di sottomissione alla necessità. Non si ha crudeltà senza coscienza, senza una sorta di coscienza applicata»(79). Egli definisce questa coscienza sveglia proprio in opposizione all’addormentato onirismo propugnato dai surrealisti e all’inutile stato di coscienza alterato, prodotto dalle droghe.
(immagini fuori testo - Artaud considerava "il sogno" di Strindberg e "6 personaggi ..." di Pirandello esempi di questo della crudeltà)
Questa violenza non è gratuita, non è derivante da un disordinato e irrazionale uso di ciò che viene definito crudeltà, anzi vi deve essere, a detta di Artaud, una precisa conoscenza tecnica e una sveglia coscienza per arrivare ad esprimere la vera essenza di questo concetto: «Dal punto di vista dello spirito, crudeltà significa rigore, applicazione e decisione implacabile, determinazione irreversibile, assoluta […] È un errore attribuire al termine “crudeltà” un senso di spietata carneficina, di ricerca gratuita e disinteressata del male fisico […] non è sinonimo di versamento di sangue, di carne martoriata, di nemico crocifisso […] La crudeltà è prima di tutto lucida, è una sorta di rigido controllo, di sottomissione alla necessità. Non si ha crudeltà senza coscienza, senza una sorta di coscienza applicata»(79). Egli definisce questa coscienza sveglia proprio in opposizione all’addormentato onirismo propugnato dai surrealisti e all’inutile stato di coscienza alterato, prodotto dalle droghe.
(immagine messicana sul rito del peyote)
Questa coscienza è la stessa che egli ritroverà nel
paese
messicano, quella che ci fa attingere al «Meraviglioso» e con la quale «si
possono
oltrepassare le cose», questa permette di far ritrovare la dimensione del
«Fantastico»
quella sorta di «soffio atavicamente represso e otturato» che è il mistero ed è
alla base di tutta la poesia.(80) RITORNA A L’INDICE DEI CAPITOLI
NOTE
51
A. Artaud, “Il teatro e la cultura” (1935), tr. it. di E. Capriolo in Il teatro
e il suo doppio, Einaudi, Torino 2000, pp. 127-133, qui p. 128.
52
«Une tête d’Européen aujourd’hui est une cave où bougnent des simulacres sans
forces, que l’Europe prend pour ses pensées.» Mia traduzione. A. Artaud, “Le
Mexique et la civilisation” in Oeuvres complètes vol. VIII, a cura di P.
Thévenin, Gallimard, Paris 1956-1994.
Carl Theodor Dreyer
53 A. Artaud, “Teatro Orientale e teatro Occidentale”
(1935), tr. it. di E. Capriolo in Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino
2000, pp. 186-190, qui p. 189.
54 A. Artaud, “Il teatro della crudeltà” (1931), tr.
it. di E. Capriolo in Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 2000, pp.
236-241, qui pp. 240-241.
55 Ivi, pp. 237-238.
56 Ibidem.
57 A. Artaud, “Lettere da Rodez” (1945), tr. it. di
C. Rugafiori, in Al paese dei Tarahumara, Adelphi, Milano 2001, pp. 159-195,
qui p. 171
58 A. Artaud, “Viaggio al paese dei Tarahumara”
(1936), tr. it. di C. Rugafiori, in Al paese dei Tarahumara, Adelphi, Milano
2001, pp. 69-97, qui p. 71.
59 E. Jentsch,
Zur Pshychologie des Unheimliche, in Psychiatrische-Neurologische
Wochenschrift, VIII, 1906, n. 22.
60 Secondo Jentsch, il sentimento perturbante si ha
quando c'è incertezza intellettuale. Quando siamo posti in una situazione di incapacità
di spiegare razionalmente dei fatti. Secondo lui, tanto più un uomo è aderente
al mondo circostante, tanto più è emotivamente sicuro, tanto meno facilmente
avrà percezione dell'esterno in modo perturbante. In questo senso la coscienza
infantile è più portata a fare vivere l’esperienza del perturbante.
61 “Potei
rendermi conto però che non avevo a che fare con forme scolpite, ma con un
determinato gioco di luci, che s’aggiungeva al rilievo delle rocce.» A. Artaud,
“Viaggio al paese dei Tarahumara” (1936), tr. it. di C. Rugafiori, in Al paese
dei Tarahumara, Adelphi, Milano 2001, pp. 69-97, qui p. 71.
62 cfr. capitolo precedente a p. 5
63 A. Artaud, “Viaggio al paese dei Tarahumara”
(1936), tr. it. di C. Rugafiori, in Al paese dei Tarahumara, Adelphi, Milano
2001, pp. 69-97, qui p. 70.
64 A. Artaud, “Sul teatro Balinese” (1931), tr. it.
di E. Capriolo in Il teatro e il suo doppio, Einaudi, Torino 2000, pp. 170-184,
qui p. 171.
65
Ibidem.
66
A. Artaud, “Viaggio al paese dei Tarahumara” (1936), tr. it. di C. Rugafiori,
in Al paese dei Tarahumara, Adelphi, Milano 2001, pp. 69-97, qui p. 71.
67
Ivi, p. 87.
68
Ivi, p. 88.
69
Ibidem.
70
A. Artaud, “Il teatro alchimistico” (1932), tr. it. di E. Capriolo in Il teatro
e il suo doppio, Einaudi, Torino 2000, pp. 165-169, qui p. 165.
71
Cfr. L. Binni, Il surrealismo. Letteratura francese contemporanea. Le correnti
d’avanguardia, Lucarini Editore, Roma 1984.
72
Per tutta la vita Artaud sofferse di dolorosissimi e inguaribili mal di testa
che lo tormentavano in modo assillante, portandolo a cercare ogni tipo di
soluzione, persino il ricorso a maghi e cartomanti. Per maggiori informazioni
al riguardo si può consultare il testo: G. Charbonnier, Essai sur Antonin
Artaud, Seghers, Paris 1959.
73
Per informazioni sulle motivazioni del viaggio in Messico si veda il testo di
C. Pasi, Artaud attore, La Casa Usher, Firenze 1989.
74
A. Artaud, “Il rito del Peyotl presso i Tarahumara” (1943), tr. it. di C.
Rugafiori, in Al paese dei Tarahumara, Adelphi, Milano 2001, pp. 129-153, qui
pp. 148-149.
75
V. Lanternari, Movimenti religiosi di libertà e di salvezza dei popoli
oppressi, Feltrinelli Editore, Milano 1960, qui p. 68.
76
A. Artaud, “Il rito del Peyotl presso i Tarahumara” (1943), tr. it. di C.
Rugafiori, in Al paese dei Tarahumara, Adelphi, Milano 2001, pp. 129-153, qui
p. 152.
77
A. Artaud, “Il rito del Peyotl presso i Tarahumara” (1943), tr. it. di C.
Rugafiori, in Al paese dei Tarahumara, Adelphi, Milano 2001, pp. 129-153, qui
pp. 132-133.
78
Ibidem.
79
A. Artaud, “Lettere sulla crudeltà” 1932, tr. it. di E. Capriolo in Il teatro e
il suo doppio, Einaudi, Torino 2000, pp. 216-219, qui pp. 216-217.
80
A. Artaud, “Il rito del Peyotl presso i Tarahumara” (1943), tr. it. di C.
Rugafiori, in Al paese dei Tarahumara, Adelphi, Milano 2001, pp. 129-153.
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