«I
desaparecidos sono lì presenti per reclamare che la coscienza, i valori e la
dignità del popolo non desiderano l’impunità né l’oblio. Patricia e Ambrosio e
tutti coloro che hanno dato la vita per la libertà rimangono nella memoria e
nella resistenza.» Adolfo Perez
Esquivel
“Giorni
di neve, giorni di sole” – di Fabrizio e Nicola Valsecchi - Casa
editrice MARNA - prefazione di Adolfo Perez Esquivel, Premio Nobel per la Pace
1980 “per la sua attività a favore dei poveri e dei non violenti” - postfazione di Gianni Tognoni, Segretario
Generale del Tribunale Permanente dei Popoli.
Il nostro terzo romanzo narra una vicenda realmente accaduta: la storia di Alfonso Dell’Orto, che in pieno regime fascista, nel 1935, con la madre e la sorella, parte per l’Argentina dove suo padre Augusto era emigrato per motivi politici e lavorativi. Sullo sfondo l’Italia del duce, in cui la libertà era negata e c’era una tessera per tutto, anche per pensare. Quel paese lontano appare loro come la terra del sole e della speranza, così come per moltissimi nostri connazionali. In Argentina, tra sforzi, rinunce e sacrifici, Alfonso riesce a costruirsi un futuro e una posizione, sposa una connazionale e forma una famiglia con quattro figli. Purtroppo altre dittature si frappongono sul suo cammino. E’ il 1976 quando il regime militare dei generali e di Jorge Rafael Videla apre il periodo dell’obediencia debida e del terrorismo di stato, che ha provocato 30.000 desaparecidos, vittime su cui è sceso il silenzio complice di molti stati e anche della chiesa. La figlia maggiore di Alfonso, Patricia (21 anni), è tra i primi desaparecidos insieme al marito Ambrosio (23) con cui svolgeva un lavoro sociale tra i poveri del barrio. Lasciano sola al mondo una bimba di 25 giorni, Mariana, a cui Alfonso in età ormai matura fa da padre. Non erano militanti attivi.
Dell’Orto vive la sua tragedia senza mai perdere la speranza di ritrovare la figlia. Quando vengono riaperti i processi nel 1999, ecco la triste verità della morte di Patricia, grazie alla deposizione del testimone oculare Julio Lopez, desaparecido per la seconda volta il 18 settembre 2006 dopo aver fatto i nomi dei colpevoli.
Alfonso trova il modo per fare rivivere la memoria della figlia, riabbracciando dopo 70 anni il proprio paese natale, lasciando un quadro di Patricia ( la sola a non aver conosciuto Piazza Santo Stefano, frazione di Cernobbio), nella Cooperativa Sociale del paese costruita anche da suo nonno Giovanni, per legare idealmente i principi di libertà, verità, giustizia e democrazia in cui i suoi cari credevano.
la recensione di Marco Albeltaro
La protagonista del libro di Fabrizio e Nicola
Valsecchi è, allo stesso
tempo, la sua grande assente. Patricia Dell’Orto è, infatti, una dei trentamila
desaparecidos argentini.
Strappata dalla sua casa, dalla sua bambina di venticinque giorni, dai suoi
genitori e legata nel destino al marito («I militari hanno rubato loro una vita
felice insieme», dice il padre). Patricia e Ambrosio – questo il nome del suo
compagno – avevano l’unica colpa di insegnare ai bambini poveri, per provare a
dare loro un futuro, per provare ad aprirgli una porta sul mondo. Lo facevano
al tempo della dittatura e ciò bastò a firmare la loro condanna a morte.
Partito dall’Argentina per
ritornare un’ultima volta nel suo paese natale, il padre di Patricia si
abbandona al flusso dei ricordi. Quei ricordi tanto frammentari e astratti che
affiorano nella mente di Alfonso Dell’Orto come un fiume in piena che fatica a
stare dentro agli argini spazio-temporali della narrazione.
Alfonso
se ne sta seduto in aereo tenendosi stretta una valigia colma delle tracce
fisiche di quei ricordi: fotografie, lettere, disegni, oggetti: quella valigia
è il tabernacolo nel quale si sono stratificate negli anni le reliquie
della tragedia che ha colpito i Dell’Orto. E proprio l’assenza della tomba
sulla quale piangere la figlia uccisa viene colmata dalla raccolta di quegli
oggetti che testimoniano il suo passaggio nel mondo.
Il viaggio di Alfonso ha uno scopo
preciso che verrà esplicitato soltanto nelle ultime pagine del libro:
portare la memoria della figlia nel luogo nel quale risiedono le memorie della
famiglia. IN Italia, dunque, a Piazza Santo Stefano. Un ritorno alle origini,
alla semplicità della vita di provincia per riallacciare con un ultimo
atto quei fili della memoria che la migrazione, il passare degli anni,
l’avvicendarsi di passioni, amori, tragedie e morti avevano spezzato.
Patricia avrà il suo monumento
funebre nella patria d’origine: una fotografia appesa nella sala principale
della cooperativa del paese. E una commemorazione. Anzi, un racconto pubblico
della sua esistenza, ciò a cui il padre tiene particolarmente per lasciare
una traccia della vita di sua figlia e dell’ingiustizia che l’ha spezzata: «è
ingiusto, assurdo morire a ventun anni con un marito di ventitré e lasciare al
mondo una bambina di venticinque giorni».
È come
se Alfonso volesse sistemare le ultime cose per morire in pace, incasellare le
ultime tessere della sua memoria per ricomporre, finalmente, il puzzle.
È così che il vuoto dell’assenza si
riempie grazie alla socializzazione della memoria di un lutto e di una vita.
Il libro di Fabrizio e Nicola
Valsecchi non è un romanzo, non è un saggio e non è nemmeno una
raccolta di memorie perché a scrivere non è il protagonista. In
fondo, non importa sapere di quale genere letterario si tratti. Perché in
questo caso, come in altri, la scrittura fuori dagli schemi della ripartizione
dei generi letterari, riesce a rendere molto meglio di eruditi saggi e di
ponderosi volumi il significato della vicenda di cui tratta. E lo rende
attraverso quella lente esistenziale che può far divenire strumento
conoscitivo il flusso continuo di una memoria intima e personale.
Non
è una storia quella che i gemelli Valsecchi hanno scritto. Si tratta,
piuttosto, di una fonte per la storia di quella vicenda dolorosa e drammatica
che vide protagonisti involontari tanti oppositori del regime dittatoriale
argentino, ma anche tante persone che con la loro trasparenza, la loro determinazione,
la loro opera quotidiana uscivano dallo schema totalizzante e freddamente
calcolatore della dittatura.
La storia dei desaparecidos è anche la storia delle loro famiglie.
E, paradossalmente, il racconto pubblico della storia di questi oppositori
inizia nel momento della loro assenza. Si racconta di loro quando sono già
stati rapiti, torturati e uccisi. La loro vicenda prende forma quando è stata
archiviata da un atto definitivo come la morte. Gli oppositori della dittatura
argentina acquistano – ed è un’amara costatazione – più forza da morti che da
vivi. La stessa scelta di non farne ritrovare i corpi, di occultarli
nell’oceano («La mente va a Pocha, una delle tante madri che non hanno più
osato toccare l’oceano, sapendo che le sue onde si sono prese ciò che restava
dei loro figli») o in fondo a profonde fosse, altro non è che il tentativo di
farli scomparire dalla memoria pubblica del Paese e di occultarli agli occhi
dell’opinione pubblica internazionale.
In realtà la giunta militare
fece male i suoi conti. E proprio la ricerca di quei destini perduti e
scomparsi alimentò quel movimento che col tempo sarebbe andato ad assumere
sempre più un carattere di massa, fino a minare le basi stesse della
dittatura. Non bastò la repressione a fermare la richiesta di verità, non
bastarono le torture, non bastò nemmeno l’ostentazione di una maschera
democratica con la quale la dittatura celò il suo orribile volto durante
la propria esibizione sul palcoscenico dei mondiali di calcio.
I desaparecidos lasciarono un’eredità troppo gravosa
ai loro famigliari da essere messa da parte per un’instante di euforia, per la
vittoria della coppa del mondo di calcio. Un’eredità involontaria, ma non per
questo meno impegnativa per chi la riceveva: cercare la verità, cercare una
persona che poi diventava soltanto più un nome fra tanti.
L’assenza di tante donne e di tanti
uomini è diventata la presenza delle loro famiglie, di madri e di sorelle,
soprattutto, ma anche di padri, fratelli, mariti, mogli e figli che hanno
circondato le mura del silenzio della dittatura e le hanno, infine, abbattute,
in un lungo e tortuoso processo che nasce però a Plaza de Mayo.
Written by Marco Albeltaro
(Università di Torino) Pubblicato il 30/01/2012 da
oubliettemagazine
appunto di lettura di Francesco Zaffuto
Nel 1976 iniziava in
Argentina l’olocausto politico di una
intera generazione che lottava per la libertà e la giustizia, quell’olocausto
si voleva tenere nascosto e solo l’amoroso ricordo delle madri lo ha rivelato; ma il
continuo affollarsi dei drammi della storia può tornare a nasconderlo. Leggere “Giorni
di neve, giorni di sole” è una grande occasione per ricordare e per le
giovani generazioni per conoscere.
Fabrizio e Nicola Valsecchi ci portano dentro
un pellegrinaggio della memoria, narrano durante un viaggio aereo con il
percorso dei pensieri: attaccati a ritagli di immagini, coincisi, rapidi, densi
di ulteriori sviluppi, capaci di lacerare e di curare ferite dell’uomo e della
storia degli uomini. Il pellegrinaggio del padre Alfonso fa rivivere la memoria della figlia Patricia,
la memoria purissima di una vita breve ma che necessariamente deve diventare
eterna. Una eternità consegnata a noi e alle nuove generazioni e da custodire
con cura.
Il libro è reperibile nelle librerie
o sulla rete IBS al link
Una presentazione che invita sicuramente alla lettura, anche perché il tema doloroso del libro evoca giustamente una storia recente che, come altre, deve essere ricordata, quasi una "terapia scaramantica" che allontani per sempre il ripetersi delle atrocità di una dittatura.
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