Con questo terzo post continua
l’inserimento su Arpa eolica del saggio su Antonin Artaud di Federico Zaffuto –
tutto il piano dell’opera su
Van Gogh - autoritratto con la benda
ARTAU
E L’ARTE FIGURATIVA
Come
abbiamo visto, con i disegni dell’ultimo periodo di Artaud (… pour
assassiner la magie ) assistiamo a una vera e propria
messa in scena della disgregazione del sistema rappresentativo delle arti fin nelle
sue fondamenta. Di conseguenza bisogna chiedersi se in generale per Artaud la
pittura sia destinata a vedere delusa ogni possibilità di espressione. A
taleproposito basta considerare l’ultimo suo testo compiuto, ovvero Van Gogh
il suicidato
della società,
per comprendere quanto quest’ultima ipotesi non sia minimamente da prendere in
considerazione. Questo testo fu scritto nel 1947, era quindi da tempo
che egli aveva intrapreso quel percorso artistico che abbiamo precedentemente
analizzato, ma ciò non intaccò il suo interesse e la sua considerazione
nei confronti della pittura. Ne è dimostrazione il fatto che Van Gogh il suicidato
della società sia
un libro sulla pittura dove questa viene presa in considerazione nel pieno del suo
linguaggio e dove non a caso il pittore olandese viene considerato dall’autore il più
grande di tutti, proprio perché dipinge «senza andare oltre ciò che viene chiamato ed è
la pittura, senza uscire dal tubo, dal pennello»(14).
Van Gogh - volo di corvi su campo di grano
Sarebbe infatti difficile
coniugare l’idea che egli possa essere arrivato a concepire il superamento
della pittura con l’immagine dell’Artaud che ha sempre
guardato costantemente e sin da
subito all’arte figurativa come uno dei suoi
principali interessi che
accompagna e fa evolvere lo sviluppo del suo pensiero. In
realtà bisogna distinguere la
ricerca che egli intraprende attraverso le proprie opere
grafiche e che egli stesso ci ha
detto non appartenere all’arte del disegno, dalla
riflessione sulla pittura e sui
pittori che di volta in volta ha analizzato e preso in
considerazione. Anche se questi
due percorsi arrivano, come vedremo, ad un esito
teorico pressoché unitario,
questo non deve tuttavia farci dimenticare la differenza
che sussiste tra la sua personale
pratica del disegno – che sembra indicare il
superamento stesso dell’arte – e
quella degli artisti da lui analizzati che invece
rimane dentro i confini della
pittura.
Ad Artaud interessa un tipo di
pittura capace di smuovere il pensiero occidentale da
quel razionalismo che avrebbe
incastrato l’uomo in una stasi intellettuale,
bloccandone le fonti ispiratrici
e portandolo a perdersi nella contemplazione di
forme statiche: «La cosa
veramente diabolica e autenticamente maledetta della nostra
epoca, è l’attardarsi sulle forme
artistiche, invece di sentirsi come condannati al rogo
che facciano segni attraverso le
fiamme»(15), scriverà ne Il teatro e il suo doppio. Uno dei fenomeni
culturali che nell’ambito della pittura aveva generato una tale stasi
visuale è rappresentato dalla
prospettiva: prodotto, questo, puramente intellettuale,
derivante dalla costruzione di
uno spazio razionale, costante e omogeneo. Una tale
struttura, di tipo matematico,
non ha nulla a che vedere con la percezione dello
spazio che hanno gli occhi, in
continuo movimento, sulle cui retine, concave e non
piane, vengono proiettate le
immagine. La costruzione prospettica piana è quindi un
costrutto meramente intellettuale
che segue delle regole geometriche. La realtà, in
questo modo, viene dipinta
seguendo una razionalità logico-compositiva, così che
l’immagine visiva prodotta
secondo quell’ordine, non permetterà più l’insorgere del
«visionario» e del
«soprannaturale»(16).
Paolo Uccello - dal Trittico Battaglia di San Romano - Disarcionamento di Bernardino della Ciarda
Artaud vede in Paolo Uccello un pittore
che,sfidando gli schemi compositivi della propria epoca, vuole superare
l’angusta visione a cui obbliga il vincolo prospettico di un unico punto di
vista: vi è infatti nella sua pittura un tentativo di dipingere la tela
collocando il punto di vista in un luogo che in un certo senso vada oltre o
racchiuda tutte le possibili prospettive. Egli non intende dissolvere la
prospettiva, paradigma compositivo della propria epoca, ma ha l’obiettivo «di
ridurla allo spessore di un pelo, di una ruga»: «E intorno a te, quando scruti
delle facce, cosa vedi, se non una circolazione di ramoscelli, un reticolato di
vene, la minuscola traccia di una ruga, l’arabesco di un mare di capelli […]
Tu, Uccello, insegni a non essere altro che una linea e lo stadio elevato di un
segreto»(17).
Dipingere in questo modo
significa svincolarsi da quella fissità intellettuale con cui
la pittura rinascimentale
usualmente costruisce l’opera (ovvero la prospettiva in
senso classico). C’è il tentativo
di volersi collocare in un punto in cui le immagini
non siano prodotte in forma
statica ed assumere un punto di vista in un certo senso in
continuo movimento, e che possa
rappresentare quasi l’inizio del manifestarsi di ogni
ipotetica possibile forma: «Che
bel mito, che bel progetto: dipingere lo svanire della
forma, non la linea che racchiude
tutte le altre ma proprio quella che comincia a non
essere più»(18). Volendo
destabilizzare lo schema compositivo prospettico, ma non
dissolverlo, l’unica possibilità
che rimane è quella di moltiplicare all’interno della
stessa tela le varie linee
prospettiche in modo da non fare assumere al quadro nessun
punto di vista.(19) Una possibilità quasi impossibile che in
Paolo Uccello prende
l’aspetto di una reale mania: la
sua ricerca diventa un vero e proprio dramma della
prospettiva. Così egli
vuole recuperare una dimensione soprannaturale dell’arte che
superi l’iperrazionalità
compositiva della pittura rinascimentale, come ci conferma
anche Burckhardt nel suo saggio L’arte
sacra in Oriente e Occidente: «In certi pittori
quali Andrea Mantegna e Paolo
Uccello la scienza prospettica divenne una vera
passione mentale […] perché la
prospettiva trasforma l’immagine in un mondo
immaginario, facendo per ciò
stesso del mondo un sistema chiuso in cui non traspare
più nulla di soprannaturale»(20).
Così come Paolo Uccello arriva a
realizzare una scomposizione della fissità delle
forme attraverso una riflessione
sulla prospettiva, Masson raggiunge un risultato
analogo ma ricorrendo ad una
pittura che esce dal figurativo.
André Masson - Homme
La tela analizzata da Artaud nel
testo Un ventre fine si intitola Homme (1924). La pittura
astratta di Masson, andando oltre i confini delle figure, non ce ne dà più distinzioni
chiare, tutto ciò genera un disorientamento che, non permettendo più una
percezione sicura, ci pone di fronte ad un continuo modificarsi delle forme. Se
con Paolo Uccello era il punto di vista che doveva essere superato, ora è la
linea stessa che determina i contorni delle figure ad essere scomposta e questo
permette a Masson di creare una pittura dove le forme dipinte sono inserite in
un continuo movimento. Tale ricerca preannuncia quella che nel teatro verrà
definita «azione continua»: per Artaud uno spettacolo teatrale che vuole
mettere in scena l’essenza della vita, ovvero il suo continuo movimento e la
sua continua forza trasformatrice, deve essere costituito da attori che non
possono mai ripetere due volte sulla scena uno stesso gesto.(21) Questo
continuo movimento, nel quadro che ci viene descritto, è realizzato dalla linea
del disegno che non si sofferma mai su forme fisse ma è come se seguisse un
continuo stato nascente, dove le forme sono in movimento, in metamorfosi, si
dilatano, si accavallano una sull’altra, si con-fondono: siamo davanti ad un
vero e proprio dramma della linea, dove la linea prosegue oltre se stessa
rompendo i limiti delle forme che rimangono così solo evocate e non definite, e
dove rimane un antagonismo tra la tendenza della linea a procedere oltre i
confini della forma e la tendenza di quest’ultima a trattenere la linea lungo i
propri confini. L’Homme viene descritto da Artaud come «un ventre fine,
un ventre di polvere molto fine e come in immagine» ai cui piedi vi è una
granata esplosa; questa «dispiega una circolazione a fiocchi che sale come
delle lingue di fuoco, un fuoco freddo», questa linea di fumo che esce dalla
granata è dello stesso colore e della stessa consistenza di quella che disegna
il ventre, un ventre che è letteralmente invaso da essa di modo da non
distinguersene più.(22) La pittura astratta di Masson riesce a destabilizzare
il sistema rappresentativo al livello della percezione degli oggetti, le forme
sono letteralmente gettate dentro queste linee di forza che da un lato le
istituiscono e dall’altro le smembrano e le fondono insieme ad altri oggetti.
Il fatto che Artaud abbia sempre
preso in considerazione un tipo di espressione
pittorica tesa a privilegiare
artisti che non mirano ad una pittura che metta in risalto
la perfezione tecnica e
soprattutto realistica dell’opera, non ci deve far cadere
nell’errore di pensare che sia
sufficiente per un dipinto essere astratto per poter
essere considerato interessante.
Per lui sono infatti due i modi in cui l’arte può fallire
il suo obiettivo: da un lato la
pittura che dipinge solo la mera riproduzione del reale,
quella che «adora la materia per
la materia», e dall’altro una pittura che esprime un
vuoto astrattismo. Alla prima
categoria appartengono pittori come Michelangelo,
Tiziano, Veronese, Tintoretto ai
quali vengono contrapposti Piero della Francesca,
Simone Martini, Piero di Cosimo,
Tura, Antonello da Messina e Mantegna; solo
questi ultimi riuscirebbero a
coniugare con le esigenze moderne quella che era
l’antica conoscenza
«soprannaturale» dei pittori prerinascimentali.(23) Alla seconda
categoria appartengono i pittori
surrealisti la cui pittura viene considerata da Artaud
«una negazione del reale, una
sorta di fondamentale discredito gettato sulle
apparenze»(24). L’idea del
surrealismo, che venne profondamente influenzato
dall’opera di Freud, era quella
di poter dipingere le immagini scaturenti dai contenuti
più profondi dell’inconscio.
L’arte in particolare, per i surrealisti, si prestava ad
illustrare quella sterminata
regione che era la psiche e questo perché, come aveva
teorizzato Freud, il mondo
dell’inconscio si manifesta con delle immagini; e, a detta
dei surrealisti, per potere
accedere all’inconscio bisognava che non intervenisse la
coscienza: la pittura diventava
così un processo di trascrizione automatico delle
immagini inconsce. Ma era proprio
questo secondo Artaud che la pittura non doveva
perseguire, perciò scrive al
riguardo della pittura surrealista: «Nella sua concezione
delle cose installa in primo
luogo un divorzio tra l’illimitato e la ragione. Non si
trova una differenza tra il mondo
dei sogni e quello della ragione»(25). Dipingere in
modo che la pittura non sia una
mera riproposizione del reale non significa non dover
partire dalla realtà,
dall’«apparenza», ma al contrario, partendo da essa, fare
emergere ciò che non si mostra
nella realtà. L’errore di fondo dei surrealisti è stato
quello di credere che all’arte
bastasse riprodurre le immagini del mondo dei sogni
così come si presentano. Ma
questo ha portato a due generi di deviazione: o ad
un’arte puramente immaginifica,
incomprensibile, vuotamente astratta, nel caso in
cui utilizzi simboli che non si
riescono a decodificare proprio perché attinti
dall’inconscio; oppure, al
contrario, quando i simboli sono chiari (siccome riproduce
in modo pedissequo il sogno) ad
una pittura che è a suo modo descrittiva e che non
coglie realmente quella che è la
vera dimensione onirica. Ecco perché riguardo a
questo ultimo aspetto ci dice che
i pittori surrealisti dipingono troppo o troppo
chiaramente oggetti in modo
ultrareale e si chiede se questa non sia la rivincita del
puro reale contro l’arte
pura.(26) Non si va oltre la dimensione
del reale semplicemente perché si dipinge in modo descrittivo un sogno,
avvalersi di un onirismo tout court significa cogliere solo rapporti
inessenziali, mentre l’artista dovrebbe considerare i sogni e le associazioni
solo come un materiale per realizzare il proprio lavoro, in modo da cogliere
gli aspetti profondi che costituiscono la vita. Questo è ciò che esattamente
farebbe Balthus a detta di Artaud: «In lotta contro questo divorzio e questa
distruzione Balthus recupera il mondo a partire dalle apparenze: accetta
i dati di senso accetta quelli della ragione; li accetta ma li riforma […] In
una parola Balthus parte dal conosciuto; ci sono nella sua pittura degli
elementi e degli aspetti universalmente riconoscibili»(27). Tutto ciò avviene
grazie alla sua particolare «scienza del colore» che gli permetterebbe di far
apparire nel reale ciò che non si mostra «distaccando gli aspetti superficiali
di epidermide» sotto la quale è custodito il mistero stesso della
vita.(28) Il particolare colore che
rende unica e riconoscibile la pittura di Balthus, non è arbitrario ma è un
qualcosa che appartiene agli oggetti nella realtà e che solo l’artista riesce a
svelare, ecco perché poco più avanti ci dice che quel riconoscibile da
cui parte il pittore «ha un senso che nessuno può raggiungere e nemmeno
riconoscere»(29). In questo passaggio Artaud introduce, per parlare della sua pittura,
il termine tecnico trompe-l’oeil ma per usarlo con un significato
traslato: ci dice infatti che la pittura di Balthus è un far apparire nel reale
ciò che nella realtà è occultato, uno svelare all’occhio facendo credere sia
reale qualcosa che non simostra, una specie di trompe-l’oeil, non però
nel senso tradizionale di questa tecnica pittorica.
Balthus - la toilette de Cathy
Il quadro al quale si riferisce, La
Toilette de Cathy (1922), infatti non ha
nulla della tecnica del trompe-l’oeil,
tutto questo perché non si tratta di ingannare
l’occhio per far apparire
qualcosa in modo da farla sembrare reale, ma al contrario di
mostrare la realtà «per meglio
crocifiggerla»: «è la nozione di trompe-l’oeil
considerata dal punto di vista
del suo splendore e non da quello del suo
asservimento»(30).
Abbiamo detto che i pittori
surrealisti, descrivendo in modo pedissequo le immagini
di cui si serve il sogno, non
colgono nella loro arte la vera dimensione onirica, ma
riproducono un mondo che ha al
suo interno concatenazioni logiche altrettanto
strutturate quanto quello della
realtà. Bisognerebbe riuscire a passare oltre il muro
dell’apparenza delle immagini
oniriche per tentare di cogliere la vita della coscienza
ai suoi albori. Ne è un esempio
un quadro come L’automate personnel (1927), ritratto che Jean de
Bosschère fece ad Artaud, dove non è distinguibile nessuna forma umana ma vi
sarebbero dipinte le forze originali che sottendono la sua personalità.(31)
Jean
de Bosschère L’automate personnel (1927)
- (foto in bianco e nero dal libro di
Artaud – Balthus e i surrealisti)
Nessun volto, ma dipinto è il
tormento riguardo alla dimensione sessuale di Artaud da lui stesso riconosciuta
nella tela. Questa opera, ci dice, ha «la forza di un sogno fissato», e grazie
a ciò è riuscita a cogliere l’aspetto più profondo e intimo della sua personale
visione della dimensione sessuale dell’uomo: «In fondo al grido delle
rivoluzioni e dei temporali, in fondo a questa macinazione del mio cervello, in
questo abisso di desideri e di domande […] custodisco nell’angolo più prezioso
della mia testa questa preoccupazione per il sesso che mi pietrifica e mi succhia
il sangue»(32). Dipingere troppo letteralmente le immagini oniriche, invece, non
permette di attingere a simili profondità, non a caso lo stesso Jean de
Bosschère viene criticato in una prefazione scritta da Artaud su una raccolta
di sue acqueforti.
Queste opere non sarebbero
abbastanza «oscure» e l’autore qui «non ha saputo
custodire il suo segreto»(33).
Questo giudizio accumuna tutta una serie di artisti che,
alquanto sbrigativamente, vengono
inseriti sotto la qualifica di pittori surrealisti:
Marx Ernst, Giorgio de Chirico,
Pablo Picasso, Salvador Dalì, Joan Mirò, Yves
Tanguy, André Masson, Giacometti.(34)
La critica a loro rivolta è aspra e vengono
paragonati ai poeti surrealisti
che non fanno altro che ragliare, muggire, belare «si
smoccolano, starnutiscono,
tossiscono, urinano nei loro versi, ci scorreggiano e ci
marciano[…] quando non russano i
loro sogni, questi rantoli di una sempiterna
agonia»(35). «Russano il loro
sogni», ancora una volta la critica colpisce uno degli
aspetti caratterizzanti della
corrente surrealista, ovvero la capacità di comunicare il
mondo onirico. La qualifica di
pittura surrealista è qui usata in modo esteso se, come
abbiamo appena visto, vengono
inseriti al suo interno pittori quali Picasso, che da un
punto di vista di storia
dell’arte non si può certo ascrivere esclusivamente a tale
movimento. Surrealisti vengono
così considerati tutti quei pittori, a lui
contemporanei, che non sono in
grado di cogliere una vera dimensione onirica. Egli
però si ricrederà proprio
riguardo a Picasso, quando si troverà davanti a quel
capolavoro che è La femme qui
pleure del 1937.
Quest’opera lo porterà ad
abbozzare nel 1946 una lettera al pittore spagnolo che non venne mai
spedita.(36) In questo testo ad un certo
punto Artaud si domanda, riguardo al viso ritratto: «Dorme? sogna?».
Ecco che ritorna il tema del
sonno, ma in modo ben differente da come lo
intendevano i surrealisti. Per
lui vi sono due distinti tipi di sogno: uno di natura
meramente ricettiva che viene
interpretato tramite l’inconscio e il subconscio e di cui
ci si dovrebbe liberare perché
menzognero (quello di cui si occupa anche
l’interpretazione psicanalitica);
e un altro, quello che gli interessa, che è espressione
di una vera e propria dimensione
generatrice. Quest’ultimo non è rievocativo,
pacificatorio, rigeneratore,
produttore di senso (nel senso della psicanalisi e
dell’interpretazione dei sogni),
ma al contrario è molto simile a quella peste che
scarnifica, dissangua, martirizza
di cui si parla ne Il teatro e il suo doppio. Picasso
non sogna, disseziona.(37) E
infatti La femme non è un volto dipinto a immagine di
Dio, ma la faccia del
martirizzato, dello scorticato: «tumore maturo […] tomba
atomica del corpo».(38)
Non è solo la dimensione onirica
a riuscire a destabilizzare le strutture logiche del
mondo, ma anche l’umorismo.
Innanzitutto il comico, il riso, di per sé producono una
perdita della fissità e su questo
è la pittura fiamminga che viene presa come esempio
da Artaud: «Gli incubi della
pittura fiamminga ci colpiscono in quanto accostano al
mondo reale la caricatura di
questo stesso mondo; presentano larve che potremmo
incontrare nei sogni»(39). Qui
egli non nomina espressamente a quali pittori fa
riferimento, ma siccome poco più
avanti descrive immagini quali «arpa saltellante»,
«embrione umano galleggiante»,
«cascate sotterranee», «esercito che avanza verso
una fortezza» è facile ricondurne
questi elementi alla pittura di Bosch e di Brueghel.
Al
di là del fatto che si tratti o meno di tali pittori, una cosa sembra chiara, e
cioè
che
al comico (e lo vedremo meglio nella parte in cui parleremo del cinema) viene
affidato
un compito anarchico e dissociativo: il riso è visto come qualcosa che lacera
il
velo illusorio della maya, dei fenomeni della realtà, rompendo la
linearità
discorsiva
di causa-effetto; ciò che non si riuscirebbe nemmeno a pensare appare,
grazie
all’umorismo, virtualmente presente.
La
pittura di Bosch è in effetti colma dimostri, che assumono un humour con una
valenza quasi satanica, queste orrende creature appaiono sulla scena dando vita
a qualcosa che la natura e la società non vorrebbe mai vedere; esattamente come
ne Il teatro e la peste gli ammalati si lasciano andare in comportamenti
eccessivi «che danno diritto di cittadinanza ed esistenza ad atti per loro
natura ostili alla vita della società»(40). RITORNA A L’INDICE DEI CAPITOLI
NOTE
14 A.
Artaud, Van Gogh il suicidato della società, trad. it. di J.-P.
Manganaro, Adelphi, Milano 2010, p.
28.
15 A.
Artaud, “Il teatro e la cultura” (1935), tr. it. di E. Capriolo in Il teatro
e il suo doppio, Einaudi,
Torino
2000, pp. 127-133, qui p. 133.
16 Si
veda: E. Panofsky, La prospettiva come forma simbolica, tr. it. di G. D.
Neri, Feltrinelli, Milano
1984.
17A.
Artaud, “Uccello, le poil” (1929), in Oeuvres complètes vol. I, a cura
di P. Thévenin, Gallimard,
Paris
1956-1994, pp. 140-142.
18 A.
Artaud, “Paul les Osieaux ou la Place de l’Amour suivi de Une prose pour
l’homme au crâne en
citron”
(1925), in Oeuvres complètes vol. I, a cura di P. Thévenin, Gallimard,
Paris 1956-1994, pp. 9-
15, qui p.
10.
19 «Artaud
vede in Uccello non il maestro del monocularismo prospettico, ma l’artefice che
ha
delirato
la prospettiva nella
disseminazione del punto di vista, che ha inseguito un tipo di linguaggio
in cui
all’opposizione di soggetto e oggetto subentra l’evidenza oscura d’un mormorio
diffuso
all’infinito».
U. Artioli – F. Bartoli, Teatro e corpo glorioso. Saggio su Antonin Artaud,
Feltrinelli,
Milano
1978, p. 27.
20 T.
Burckhardt, L’arte sacra in Oriente e in Occidente, tr. it. di E. Bono,
Rusconi, Milano 1976, qui pp.
169-170.
21
Riguardo al teatro cfr. A. Artaud, “Lettere sulla crudeltà” (1932), tr. it. di
E. Capriolo in Il teatro e il
suo
doppio, Einaudi, Torino
1964, pp. 216-219.
22 A.
Artaud, “Un ventre fine” (1925), tr. it. di P. Lalario, in Balthus e i
surrealisti materiali a cura di P.
Lalario,
Ananke,Torino 2008, pp. 96-98, qui p. 96.
23 A.
Artaud, “La Giovane Pittura francese e la tradizione” (1936), tr. it. di P.
Lalario, in Balthus e i
surrealisti
materiali a cura di P.
Lalario, Ananke,Torino 2008, pp. 83-87.
24 Ivi, p.
83.
25 Ibidem.
26 cfr. A.
Artaud, “I quadri surrealisti” (1963), tr. it. di P. Lalario, in Balthus e i
surrealisti materiali a
cura di P.
Lalario, Ananke,Torino 2008, pp. 125-127.
27 A.
Artaud, “La Giovane Pittura francese e la tradizione” (1936), tr. it. di P.
Lalario, in Balthus e i
surrealisti
materiali a cura di P.
Lalario, Ananke,Torino 2008, pp. 83-87, qui p. 83.
28 Ibidem.
29 Ibidem.
30 A.
Artaud, “Esposizione Balthus alla Galleria Pierre” (1934), tr. it. di P.
Lalario, in Balthus e i
surrealisti
materiali a cura di P.
Lalario, Ananke,Torino 2008, pp. 66-68.
31 A.
Artaud “L’automa personale” (1927), tr. it. di P. Lalario, in Balthus e i
surrealisti materiali a cura
di P.
Lalario, Ananke,Torino 2008, pp. 107-114.
32 Ivi, p.
112.
33 A.
Artaud, “ Prefazione per un libro di acqueforti di Jean de Bosschère”
(datazione incerta,
sicuramente
prima del 1928, perché vi è una corrispondenza tra il pittore e Artaud che fa
riferimento
a questo
testo), tr. it. di P. Lalario, in Balthus e i surrealisti materiali a
cura di P. Lalario,
Ananke,Torino
2008, pp. 115-121.
34 Artaud,
“I quadri surrealisti” (1963), tr. it. di P. Lalario, in Balthus e i
surrealisti materiali a cura di P.
Lalario,
Ananke,Torino 2008, pp. 125-127.
35 Ivi, p.
125.
36 A.
Artaud, “A Pablo Picasso (Projet de lettre)” (1946), in Oeuvres
complètes vol. XI, a cura di P.
Thévenin,
Gallimard, Paris 1956-1994, pp. 173-175.
37 Si
veda: U. Artioli – F. Bartoli, Teatro e corpo glorioso. Saggio su Antonin
Artaud, Feltrinelli, Milano
1978.
38 A.
Artaud, Al paese dei Tarahumara e altri scritti, a cura di H.J. Maxwell
e C. Rugafiori, Adelphi,
Milano
1966, p. 183.
39 A.
Artaud “Teatro Orientale e teatro Occidentale” (1935), tr. it. di E. Capriolo
in Il teatro e il suo
doppio, Einaudi, Torino 2000, pp. 185-190, qui
p. 188.
40 A.
Artaud, “Il teatro e la peste” (1934), tr. it. di E. Capriolo in Il teatro e
il suo doppio, Einaudi,
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