di giandiego marigo pubblicato su Radio off - il 28/04/2020
Esiste l’urgenza di un nuovo linguaggio! L’ho sentito dire moltissime volte e sono persino d’accordo, ma parliamone. L’accezione con la quale questa dichiarazione viene, generalmente emessa, è puramente esteriorizzata; cioè si da al linguaggio un valore puramente formale, riducendolo ad un espediente, ad una questione puramente comunicativa e metodologica. Si intende cioè l’adeguamento del marketing e non davvero della qualità di quel che si dice, ma piuttosto del modo in cui lo si dice.
In realtà quello che chiamiamo linguaggio è la manifestazione esterna di una condizione interiore (in parte condivisa e condivisibile) e quindi quando si dice che esiste l’esigenza di modificarlo si dichiara anche che è necessario cambiarne il supporto filosofico e spirituale; se non si intende questo, si sta semplicemente parlando di un espediente, di una astuzia comunicativa, che però non modifica affatto la qualità del rapporto, anzi, serve spesso proprio per mantenere la struttura di potere del comunicatore.
Parlando dell’Area Progressista, (quella che mi piace chiamare AreA di Progresso e Civiltà) che maggiormente manifesta questa “esigenza teorica”, se essa non metterà in campo una profonda discussione sui “motivi”, sui “postulati” starà forse modificando (forse) il suo modo di comunicare, ammesso che ci riesca, ma sicuramente non modificherà alcun linguaggio.
Restiamo prigionieri di parametri obsoleti, torniamo immancabilmente a modelli libreschi, standardizzati; a definizioni riduttive e pochissimo chiare (si pensi, per esempio al termine Sinistra, ormai abusatissimo e privo di significato, che tutti usano ma che nessuno più riesce a definire). Sentiamo la necessità di vecchie classificazioni che determinino la nostra appartenenza e non riusciamo affatto a liberarci da queste gabbie che ci definiscono.
Modificare un linguaggio significa quindi cambiare anche sé stessi cioè chi questo linguaggio emette e solo nel caso in cui questa modificazione sia sincera questo linguaggio cambia realmente.
Per chi abbia memoria, per esempio, ricordo un termine che ebbe ben quarant’anni di incontrastato successo in politica, parlo del termine “rinnovamento” usato dalla Democrazia Cristiana nel suo lunghissimo (decisamente troppo) periodo di governo. Con questo termine si intendeva un banale “rimescolamento delle carte”, più di apparenza che di sostanza, finalizzato al mantenimento ed alla perpetuazione del potere anziché a qualsivoglia novità.
Così oggi, sin troppo spesso, con modificazione dei linguaggi e persino con il termine cambiamento si intende la medesima cosa, cioè un metodo per mantenere piuttosto che per cambiare.
La necessità di un differente paradigma è realmente urgente, il pianeta stesso lo richiede, non vi è dubbio. Lo è a svariati livelli da quello puramente pratico a quello più squisitamente scientifico, filosofico ed anche spirituale è quindi inutile, se non per il potere che vuole riprodurre sé stesso, adeguare con astuzie di marketing il gioco delle definizioni formali ai tempi ed al succedersi delle stagioni umane. Inutile e persino deleterio se non cambia il substrato che lo sorregge. In caso contrario il cosiddetto linguaggio non sta cambiando ma , in realtà, si sta solamente adeguando alle necessità comunicative per riprodurre sé stesso nei nuovi tempi.
Mi rendo conto di avere affrontato qui un mostro sacro, che non può essere liquidato nel brevissimo spazio di questo articolo, ma il sentir parlare costantemente di cambiamenti e di linguaggi mi sta provocando nausea e rabbia.
Soprattutto quando l’evidenza mi mette davanti la perpetuazione del potere attraverso questi adeguamenti, ma non solo. A questo va aggiunta la corruzione dei portatori di novità, storica, continua e sempre, purtroppo, uguale a sé stessa, pur nell’evolversi, apparente, della fase storica.
Quando questo non avvenga per consunzione ed assedio culturale, coloro che davvero non chinano il capo e non si inginocchiano divengono eretici conclamati, clienti per il rogo, il TSO, l’isolamento sociale … la messa all’indice, la reclusione, il confino morale e fisico. Questa corruzione avviene, generalmente, in modo naturale, auto-prodotto, (salvo i casi prima citati di carne da rogo) non vi è miglior censura di quella che ci facciamo da soli.
Un graduale avvicinamento alla “cultura condivisa” all’unico pensiero, una resa incondizionata ad un assedio per fame, compiuto in modo quasi “naturale” non solo dal sistema, ma anche dai suoi abitanti in modo “singolare”. Spesso legato a forme di ricatto sottili che riguardano la stessa sopravvivenza.
Quando diciamo, e lo diciamo spesso, la parola “cambiamento” o quando peroriamo la necessità di adeguare il nostro linguaggio, meglio sarebbe se ci rendessimo conto di quel che stiamo dicendo. Ed ancor meglio sarebbe se ci credessimo e fossimo disposti a modificare in noi stessi, nel nostro profondo, nella casa segreta delle nostre motivazioni e dei nostri postulati morali ed etici, quanto è necessario affinchè questo avvenga davvero. A mettere in discussione le nostre granitiche certezze lasciando spazio al dubbio.
Mi scuso per lo spessore della tematica e per la probabile difficoltà di lettura, ma ogni tanto si deve, anche se si è solamente filosofi o poeti di strada, affrontare sé stessi.
Come ogni buon pubblicitario sa, il primo scopo di ogni comunicazione è rendere efficace il messaggio e stabilire a quale categoria di persone si intende trasmetterlo. E' ovvio: più il messaggio si fa complesso, dotto o simil-dotto, il campo dei destinatari si restringe. Chiaro anche che, usando parole straniere o sigle, il messaggio non passi ai più.
RispondiEliminaRinnovare il linguaggio per renderlo più efficace è lecito. Farlo per "astuzia comunicativa" (come dice l'autore dell'articolo) nel nostro paese dove ci sono tanti analfabeti di ritorno e scarse competenze linguistiche, è colpevole.
Ci sarebbe tanto da dire sul linguaggio ma mi limito a ridire che solo chi sa e vuole trasmettere o comunicare per davvero si può permettere di usarne uno semplice.
Ciao.
La parola cambiamento è essenzialmente una parola vuota e può essere riempita con ogni ingrediente, di conseguenza il cambiamento può essere all'indietro o in avanti; e si aggiungono (indietro e avanti) altre due parole vuote che se non vengono riempite di contenuto non hanno senso. Se applichiamo un qualsiasi contenuto vediamo che le cose cambiano radicalmente; prendiamo un contenuto su cui oggi si sta dibattendo tanto: l'assistenza sanitaria. Se guardiamo lo stato attuale potremmo addirittura preferire un ritorno all'indietro a prima di alcuni tagli operati, ciò non toglie che i tagli sugli sprechi sono necessari se operati per investire nella stessa sanità in vista di un miglioramento del servizio. Allora non si può escludere un andare avanti, ma non nel senso di rendere privata la sanità pubblica. E pubblico non deve essere una prestazione mediocre ma di buon livello; ovviamente i medici e gli infermieri vanno pagati. Ma come far capire che ciò deriva dal pagamento delle imposte? Se la parola cambiamento è usata in malafede dalla pubblicità politica, ci sono anche delle parole piene e sostanziali che sono diventate preda dello svuotamento operato dai soloni della politica. Basta elencare le più usuali: pane, lavoro, libertà, uguaglianza, fraternità. Ebbene su queste parole, pur essendo parole sostanziali, non si trova comprensione e mutuo accordo ed è per questo che c'è sempre divisione e desolazione nel campo politico. Un dibattito culturale può sicuramente venire in aiuto ma fatto per capirsi e non per primeggiare.
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