Il dramma “Le voci di dentro” di Eduardo de
Filippo, viene riproposto da Toni
Servillo in diversi teatri d’Italia – link
sulla tournèe -
“Le voci di dentro” chiude il ciclo dell’immediato dopoguerra di Eduardo.
Alla guerra si fa riferimento nel testo più volte direttamente, ma più ancora essa è presente sottintesa in tutte le situazioni e i personaggi che ne sono simbolicamente l’inconscio prodotto. “Quando ero giovane facevo dei bellissimi sogni e volevo continuare a dormire, ora non sogno più”, dice Michele il portinaio. Il sogno è stato distrutto o sostituito dagli incubi, come quelli macabri e truculenti narrati all’inizio dalla signora Rosa e dalla sua domestica, Ma la devastazione interiore si manifesta soprattutto nella reciproca diffidenza tra vicini, tra fratelli, tra marito e moglie, zii e nipoti, insomma quasi il microcosmo metaforico di una guerra mondiale. Ognuno è indotto a sospettare che l’altro abbia ucciso qualcuno e nasconda un cadavere. E tutto origina dal protagonista Alberto Saporito, sicuro che il vicino abbia ucciso un suo amico e nasconda le prove in casa. Il suo diventerà sempre più un atto di accusa verso un’umanità assuefatta a convivere quotidianamente col delitto, con i morti, che non vede più, ma presenti attorno dappertutto ( “nello scricchiolìo di un armadio, in una porta che si socchiude”). E’ una coperta allusione al fatto che in una guerra siamo sempre tutti assassini, tutti complici. E nel protagonista torna il tema del sogno: improvvisamente si accorge di non essere più sicuro se il delitto commesso dal vicino lo abbia visto o sognato. Qui dal motivo iniziale dell’incubo che ormai abita l’umanità, si passa ad un’altra potente metafora: il sonno della coscienza. E alla denuncia della guerra, come un atto criminale collettivo, si aggiunge quella del dormiveglia morale in cui tale atto ha potuto essere consumato o tollerato. E’ come se attraverso l’arditezza inedita delle situazioni Eduardo abbia voluto dar voce a quella domanda, tardiva e censurata, ma nondimeno insopprimibile (le voci di dentro, appunto) emersa solo col tempo nel dopoguerra: Ma come è stato possibile? Dormivamo tutti? Uno dei personaggi più emblematici è zi’ Nicola, ex-fabbricante di fuochi artificiali, che ha smesso di parlare perché nessuno ascolta più e risponde solo attraverso l’esplosione dei fuochi, trasparente metafora di un mondo che anziché dialogare, spara.
Alla guerra si fa riferimento nel testo più volte direttamente, ma più ancora essa è presente sottintesa in tutte le situazioni e i personaggi che ne sono simbolicamente l’inconscio prodotto. “Quando ero giovane facevo dei bellissimi sogni e volevo continuare a dormire, ora non sogno più”, dice Michele il portinaio. Il sogno è stato distrutto o sostituito dagli incubi, come quelli macabri e truculenti narrati all’inizio dalla signora Rosa e dalla sua domestica, Ma la devastazione interiore si manifesta soprattutto nella reciproca diffidenza tra vicini, tra fratelli, tra marito e moglie, zii e nipoti, insomma quasi il microcosmo metaforico di una guerra mondiale. Ognuno è indotto a sospettare che l’altro abbia ucciso qualcuno e nasconda un cadavere. E tutto origina dal protagonista Alberto Saporito, sicuro che il vicino abbia ucciso un suo amico e nasconda le prove in casa. Il suo diventerà sempre più un atto di accusa verso un’umanità assuefatta a convivere quotidianamente col delitto, con i morti, che non vede più, ma presenti attorno dappertutto ( “nello scricchiolìo di un armadio, in una porta che si socchiude”). E’ una coperta allusione al fatto che in una guerra siamo sempre tutti assassini, tutti complici. E nel protagonista torna il tema del sogno: improvvisamente si accorge di non essere più sicuro se il delitto commesso dal vicino lo abbia visto o sognato. Qui dal motivo iniziale dell’incubo che ormai abita l’umanità, si passa ad un’altra potente metafora: il sonno della coscienza. E alla denuncia della guerra, come un atto criminale collettivo, si aggiunge quella del dormiveglia morale in cui tale atto ha potuto essere consumato o tollerato. E’ come se attraverso l’arditezza inedita delle situazioni Eduardo abbia voluto dar voce a quella domanda, tardiva e censurata, ma nondimeno insopprimibile (le voci di dentro, appunto) emersa solo col tempo nel dopoguerra: Ma come è stato possibile? Dormivamo tutti? Uno dei personaggi più emblematici è zi’ Nicola, ex-fabbricante di fuochi artificiali, che ha smesso di parlare perché nessuno ascolta più e risponde solo attraverso l’esplosione dei fuochi, trasparente metafora di un mondo che anziché dialogare, spara.
E’ un’opera molto amara che sembra nascere dal
senso di colpa che abita, benché rimosso, la generazione uscita dalla guerra.
Però la spietata rappresentazione degli uomini sembra dirci che essi non sono
stati solo le vittime disumanizzate dalla guerra, ma anche quelli che l’hanno
resa possibile, perché “gli uomini sono fatti male”, dice il Saporito.
L’opera sconcertò per il suo pessimismo e il suo
carattere innovativo una parte della critica, ma Eduardo affermò che forse non
era stata ben colta ed era destinata ad una vitalità in avvenire.
Maria Luisa Ferrantelli
La
pagina di Arpa eolica dedicata a Maria Luisa Ferrantelli
Qui – Eduardo De Filippo nel momento conclusivo del dramma
Qui Toni Servillo in una breve
intervista coglie gli aspetti centrali dell’opera – più una breve scena dei due
fratelli
immagine - Eduardo De Filippo nella scena finale del dramma
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