Con questo post si conclude l’inserimento su Arpa eolica del saggio su Antonin Artaud di Federico Zaffuto –
tutto il piano dell’opera su
ANTONIN ARTAUD: LA DISSOLUZIONE DELLE FORME E LA produzione del mondo
(dipinto di A. Artaud)
Per farla finita con il giudizio di Dio
PHONÉ,
LOGOS E RADIO
Nella
ricerca di questa oralità, che a questo punto potremmo definire tribale, un
medium
tecnologico quale la radio può portarci a recuperare quella «parola parlata»
che
l’alfabeto fonetico ha trasformato in un «codice meramente visivo» (143).
McLuhan sostiene
che tramite i mezzi elettronici abbiamo ricreato nella nostra cultura
l’esperienza
indigena e non-letterata e che proprio la radio, dilatando le dimensioni
percettive,
creerebbe quel campo iperestesico ed onnicomprensivo che sarebbe
capace di
stimolare gli stessi tipi di reazioni presenti nelle culture orali, la cui
risposta
è di totale
coinvolgimento. (144) La radio quindi influenza l’intero sensorio
umano e,
alterando e accelerando la percezione delle cose, crea un nuovo destinatario
avente una
sorta di organismo espanso con «il cervello fuori dal cranio e i nervi fuori
della
pelle»(145). Non è possibile riscontrare in Artaud una teoria che giustifichi e
spieghi la
scelta di tale mezzo tecnologico, ma quando McLuhan ci dice che la radio
è un «mezzo
caldo» di notevole coinvolgimento e che «le sue profondità subliminali
sono
cariche degli echi tribali e di antichi tamburi»(146), siamo di fronte ad
un’idea che
sembra
partecipare della stessa ispirazione che probabilmente portò Artaud a
scegliere
questo mezzo tecnologico per il proprio lavoro. Sempre a detta di McLuhan
se
l’alfabeto fonetico è stato un mezzo che ha prodotto una rottura tra
l’esperienza
uditiva e
quella visiva, a chiaro vantaggio di quest’ultima, attraverso la radio - che è
un «mezzo
caldo» ovvero un mezzo che porta un unico senso (l’udito nella
fattispecie)
«ad un’alta definizione, fino allo stato in cui si è abbondantemente colmi
di dati»(147)
- si può recuperare una dimensione che
ci avvicini a quella oralità
perduta.
Ci si
potrebbe chiedere però se la mediazione di un mezzo tecnologico quale la radio
che elimina
l’esecuzione dal vivo, cancellando uno degli elementi principali delle
culture
orali e tribali, non faccia perdere l’essenza stessa di una esperienza che
comporta
una compartecipazione tra esecutore e uditorio. Rimane irrisolta infatti una
questione
fondamentale: il mezzo tecnologico non elimina forse proprio uno degli
elementi
essenziale dell’arte teatrale e della poesia orale? Dal punto di vista di una
poesia
orale tipica delle culture primitive si perde infatti quello che è uno degli
aspetti
fondanti delle loro civiltà, ovvero la forza aggregante del rito dal vivo;
siamo
poi così
sicuri che questo aspetto è sostituibile da una specie di «villaggio globale»
alla
McLuhan prodotto da un mezzo di comunicazione di massa? E soprattutto, cosa
rimane dal
punto di vista dell’arte teatrale, di uno dei suoi aspetti più importanti,
ovvero la
caratteristica di evento che solo una produzione dal vivo può rendere?
Di questi
problemi Artaud doveva essere ben consapevole, come ci conferma una lettera
(l'animato discutere di Artaud)
scritta a
Paul Thévenin poco dopo essersi visto rifiutare la messa in onda del suo
lavoro: «Là
dove c’è la macchina/ c’è sempre l’abisso e il nulla,/ e una interposizione
tecnica che
deforma/ e annichilisce quanto è stato fatto. […] Ecco perché non
toccherò
mai più/ la Radio/ e mi consacrerò ormai/ esclusivamente/ al teatro/ così
come lo
concepisco/ un teatro di sangue,/ un teatro che ad ogni rappresentazione avrà
fatto/
guadagnare/ corporalmente/ qualcosa/ tanto a colui che esercita/ quanto a colui
che vede/
recitare,/ del resto/ non si recita/ si agisce/ Il teatro in realtà è la genesi
della
creazione»(148). Notiamo quel «corporalmente», ci si potrebbe ingannare e
pensare che
Artaud abbia rinnegato la sua operazione che è esclusivamente vocale,
ma così non
è, dato che, come abbiamo tentato di illustrare, essa rimanda a tutti gli
effetti ad
un’esperienza corporea. La critica qui è da intendere semmai al livello del
limite del
mezzo tecnologico, è la macchina infatti che viene accusata di produrre
«l’abisso e
il nulla». D’altronde egli non poteva non percepirne tutti i limiti, proprio
relativamente
ad uno degli aspetti che reputava fondamentali nella produzione
dell’arte,
ovvero il recupero del «movimento della vita»; in questo senso egli avrebbe
sicuramente
fatta sua la critica che Zumthor fa nei confronti della riproducibilità
tecnica
quando ne La presenza della voce scrive: «L’archiviazione ferma la corrente
dell’oralità,
arrestandola al livello di una esecuzione. Questa, stabilizzata, perde
ciò che
rappresenta il movimento della vita»(149). Il riprodurre il movimento della
vita,
ricordiamolo,
era appunto quello che Artaud aveva sempre ricercato nella sua
produzione
artistica ed è anche uno dei motivi per il quale ad esempio il cinema
viene da
lui criticato già negli anni ’30. Ecco cosa diceva a proposito del problema
della
riproducibilità nel cinema: «Onde viventi, iscritte in un numero di vibrazioni
fissate per
sempre, sono onde ormai morte. Il mondo del cinema è un mondo
ormai
chiuso, senza relazione con l’esistenza»(150). Non bisogna però eccessivamente
forzare l’interpretazione di questo punto: di fatto Artaud non elabora questa
tematica in
modo
approfondito, ed è alquanto estraneo al dibattito sulla riproducibilità tecnica
che ad
esempio porterà allo scontro tra Benjamin e Adorno.
D’altronde
sicuramente Artaud credeva ancora nella bontà del suo progetto ed infatti
si batté
molto, come testimoniano le varie lettere al riguardo, per la sua realizzazione
radiofonica.
La voce come mezzo espressivo privilegiato non era certo stata usata a
caso. La
voce ha di per sé un’incredibile potenzialità. Steven Connor, nel testo La
voce come
medium, afferma che quando questa viene sentita svincolata dalla fonte
che l’ha
prodotta, genera una certa destabilizzazione nell’uomo, il quale è subito
necessitato
a colmare tale mancanza con la creazione di un’immagine visiva ad essa
adeguata:
«Il suono, specialmente il suono senza origine, autonomo o eccessivo, sarà
vissuto
come una mancanza e come un eccesso; come un mistero che deve essere spiegato,
e come un’intensità che deve essere contenuta»(151). La voce usata
nell’incisione
di Artaud come un grido angoscioso di protesta può allora scatenare
nell’immaginario
visivo, che cerca di sopperire alla mancanza di visione della fonte
che l’ha
prodotto, delle sensazioni molto più violente e angosciose di qualsiasi altra
immagine
visiva. Infatti sempre Connor ci dice: «Il potere della voce senza sorgente
visibile è
il potere di un qualcosa-di-meno-di-una-presenza che è anche un qualcosa-
di-più-di-una-presenza»(152).
È vero che nel nostro caso la voce esce dall’apparecchio
radiofonico,
ed è quindi chiaramente collocata dal punto di vista spaziale, ma noi non
abbiamo
l’immagine dell’artefice di tale produzione, e tutto deve essere demandato
all’immaginazione:
abbiamo così di fatto un’esperienza di voce senza origine evidente, ciò produce
«un’esperienza del sovraccarico di suono»(153) che ha necessità
di essere
colmata. Ecco perché Connor teorizza nel suo testo La voce come medium
che le voci
possono produrre corpi e dà ad essi la definizione di «corpo vocalico».
Egli
sostiene che tramite le operazioni autonome della voce si dà vita ad una sorta
di
corpo
secondario che è una «proiezione di un nuovo modo di possedere o di essere un
corpo»(154). A quanto pare l’uomo ha la necessità, quando sente una voce
proveniente
da una fonte non identificabile, di colmare tale deficienza abbinandogli
con
l’immaginazione un corpo che deve essere verosimile. Addirittura Connor
sostiene
che il potere della voce di incarnarsi è così forte «che questo processo
avviene non
solo nel caso delle voci che sembrano separate dalle loro sorgenti
evidenti o
naturali, ma anche in quello di voci […] che hanno una sorgente
chiaramente
identificabile ma che sembrano, per diversi motivi, eccessive per quella
fonte.
Questa voce richiama allora per sé un diverso tipo di corpo, un corpo
immaginario»(155) al punto che può sostituire o rimodellare il vero corpo
visibile di chi
sta
parlando. Un esempio di tale discrepanza dell’immagine visiva dall’emissione
vocale ci
viene fornito da Adorno a proposito della opera lirica e della sua messa in
scena. Già
l’emissione vocalica di un cantante lirico è un qualcosa che sembra
sopravanzare
i limiti possibili della voce umana, quando siamo a teatro riusciamo
difficilmente
a ricondurre la magia di tale voce dentro un normale corpo. Ma ancora
di più ci
dice Adorno la regia non riesce a tenere il passo con una simile arte, la cui
altezza non
può essere raggiunta né dalle pratiche sceniche letterali né da quelle che
propongono
una messa in scena riattualizzata. Egli sostiene che non si può non ridere
«del cigno
del Lohengrin e delle barbe germaniche dell’Anello» e di tutte le messe in
scena de Le
nozze di Figaro «con dame e damerini incipriati, paggi e saloni roccocò
che
ricordano una scatola di cioccolatini» e non ci si può non rendere conto di
quanto
«la musica
del Figaro sia di un valore veramente incomparabile»(156). Stessa
inadeguatezza
è però resa dalle regie in chiave moderna: «Se invece si elimina questa
mascherata
e si lasciano i partecipanti passeggiare sulla scena in tute da ginnastica o
in costumi
intemporali, copiando l’uso della danza contemporanea, ci si pone
inevitabilmente
la domanda: cosa vuol dire? perché mettere in scena questa roba?»(157). Qui Adorno sta sostenendo che difficilmente
l’altezza di ispirazione di
questa arte
possa essere raggiunta da alcuna forma visiva restituita dall’arte registica,
al punto di
arrivare nel suo ragionamento ad un esito che potrebbe sembrare
paradossale
nei confronti del suo stesso sistema di pensiero, ovvero a teorizzare che
l’ascolto
di una riproduzione in disco sia da preferire per quanto riguarda l’opera
lirica
all’esecuzione a teatro. Si rimane colpiti a sentire una presa di posizione del
genere da
parte di Adorno, colui che ha sempre argomentato contro ogni tipo di mezzo
tecnologico di riproduzione dell’arte.(158) Ma ciò che ci interessa per il nostro
discorso è
il fatto che Adorno abbia colto un aspetto importante riguardo la
spaccatura
che si produce tra l’esperienza acustica e la possibile restituzione visiva,
al punto da
fargli preferire un ascolto tramite strumento elettronico ad occhi chiusi.
La
caratteristica principale del corpo-voce è quindi quella di essere un
«corpo-in-
invenzione»,
ma non è solo questione di immaginazione, la voce sentita svincolata da
alcuna
immagine visiva assume di per sé tonalità e caratteristiche differenti. Quando
ci
svincoliamo da quel predominio della vista di cui abbiamo parlato e isoliamo
l’elemento
acustico questo viene percepito in modo differente, come ci conferma
anche
McLuhan: «Se ci mettiamo a parlare in una stanza buia, le parole assumono
improvvisamente
nuovi significati e un tessuto diverso. Diventano persino più ricche
dell’architettura»(159). Un esempio di
corpo vocalico che ci viene fornito da Connor è
la voce
della rabbia che ha lo scopo di trascendere la propria condizione,
«costituendosi
come una specie di proiettile, un’arma pungente», capace di penetrare
a fondo,
disintegrare e abbandonare se stessa, producendo così un nuovo tipo di
corpo «più
feroce, caldo, dissociato».(160) In Per farla finita con il giudizio di dio la
voce viene
usata proprio in questo modo, abbiamo un continuo martellamento
aggressivo
delle parole e dei suoni lanciati a fendere l’aria con invettive, secche
epigrafi,
scoppi verbali, urti etc. che creano una condizione di choc continuo. La
voce così
raggiunge una dimensione incantatoria che rompe tutte le maglie
dell’oppressione
e del silenzio e il giudizio di dio viene abbattuto da questo vortice
sonoro. Non
solo, la radio opera l’amplificazione di questo messaggio, accresce il
suo potere
di penetrazione e lo diffonde: «come una maschera antica, accentua la dizione,
fa risuonare le parole alla radice»(161).
Forse non è
un caso che l’ultima opera condotta a termine da Artaud sia l’espressione
Artaud
di un urlo
che sembra sintetizzare metaforicamente il suo intero percorso artistico
costantemente
caratterizzato da una sfida ai vincoli delle forme in cui l’uomo si trova
imprigionato.
In questo senso all’arte viene assegnata la stessa meta che dovrebbe
seguire la
vita, come esprimono le seguenti parole di Artaud con cui vorremmo
chiudere il
nostro lavoro:
«Bisogna
fare uno sforzo per risalire il corso delle cose, e capovolgere gli eventi.
Con purezza
e sincerità di fronte a noi stessi...perché vivere non è seguire come
pecore il
corso degli eventi, nel solito tran tran di questo insieme di idee, di gusti,
di
percezioni,
di desideri, di disgusti che confondiamo con il nostro io e dei quali siamo
appagati
senza cercare oltre, più lontano. Vivere è superare se stessi, mentre l'uomo
non sa far altro che lasciarsi andare»(162).
IN
CONCLUSIONE
(disegno di A. Artaud)
Al termine
della nostra trattazione potremmo ancora chiederci quanto possano essere
realizzabili
le istanze proposte da Artaud e quali possibilità vi siano per il teatro.
Prima
ancora di porci questo interrogativo dovremmo però domandarci perché esso
riguardi
solo l’arte teatrale e non tutte le altre forme d’arte. La risposta è proprio
quanto
vorremmo fosse emerso dal nostro lavoro, infatti finché ci si limita a
chiedersi
che senso abbia mettere in scena un testo scritto, non vi può essere che
un’unica risposta: nessuno. Perché allora la domanda
ci appare così radicale come
non nelle
altre arti, fino a sentire di venire messa in crisi la possibilità stessa del
teatro?
Infatti questo quesito non sembra investire le altre arti, che sembrano avere
diritto di
possibilità in modo stabile e sicuro. Tendenzialmente non è mai messa in
discussione
la motivazione che muove a scrivere un romanzo, o una sinfonia, o
dipingere o
ancora scolpire e, se mai ce lo si domanda, si sta ragionando sull’essenza
stessa
dell’arte e se questa abbia motivo d’esistere di per sé. Per il teatro è invece
diverso, è
come se si dovesse continuamente cercare una giustificazione ulteriore.
Ciò si
verifica, come abbiamo tentato di illustrare, in quanto non si è ancora creato
un
linguaggio specifico teatrale. Artaud si pone proprio alla ricerca di tale
linguaggio;
certo non è l’unico e nemmeno il primo, basti pensare a Wagner, Appia,
o Craig,
tutti autori che hanno portato avanti il problema, anche se giungendo a
soluzione
assolutamente diverse.
Cosa
determina questa differenza tra le arti?
La risposta può essere tentata
ricordando
ciò che è stato detto sulla costituzione dell’uomo e sulla nascita della
scrittura
alfabetica. Ogni arte ha infatti un organo di senso privilegiato verso il quale
comunica e
un medium espressivo. Nel terzo capitolo abbiamo sostenuto con
MacLuhan
che la nascita della scrittura alfabetica ha prodotto delle modificazioni
nella
struttura costitutiva dell’essere umano, soprattutto per quanto riguarda gli
organi di
senso. Tale medium ha segnato il passaggio verso un uomo che
privilegiasse
la vista sull’udito come organo su cui fare affidamento, e ciò avrebbe
frantumato
la sua costituzione originaria che di per sé era sinestetica. Se ora
consideriamo
le arti che hanno conquistato uno statuto di stabilità e riconoscimento,
sono tutte
arti che si rivolgono alla vista, o comunque hanno a che fare con la
scrittura
(escludendo forse la scultura che per alcuni teorici come Lessing privilegia
il tatto,
ma analizzare questo punto ci porterebbe troppo lontano). La pittura
ovviamente,
ma anche la narrativa e la poesia che comunque passano per la vista se
le si
leggono e, anche se le si ascoltano, basano la loro esistenza sulla scrittura
alfabetica.
Potrebbe sembrare che la musica non rientri in questo criterio, ma non è
affatto così:
la musica, la grande musica occidentale, è anch’essa una scrittura, anzi
potremmo
dire che è un’iperscrittura con regole matematiche (le regole dell’armonia
infatti
prevedono precisi e difficili canoni da rispettare). Queste arti trovano la
loro
naturale
giustificazione per il semplice fatto che l’uomo occidentale e la cultura si
sono andati
costituendo e organizzando secondo il predominio della vista e della
scrittura.
La possibilità del teatro allora va di pari passo con la possibilità di poter
concepire
un uomo che risalga alla sua costituzione originaria, portando alla luce
quello che
Artaud ha definito l’in-nato.
Ecco perché
in un certo senso anche le opere di Artaud non possono davvero cogliere
fino in
fondo le sue stesse istanze di rinnovamento; motivo per cui Derrida scrive nel
suo saggio
(che si trova come introduzione all’edizione italiana de Il teatro e il suo
doppio) che
«non c’è oggi nel mondo un teatro che risponda al desiderio di Artaud. E
da questo
punto di vista non ci sarebbe da fare eccezione per i tentativi promossi da
Artaud».
(autoritratto di A. Artaud)
Cosa resta
allora? resta la possibilità di avvicinarsi il più possibile lungo un percorso
indicato,
tentando di sommuovere le fissità delle forme, forme queste che, come
abbiamo
visto, non riguardano solo le regole compositive dell’arte ma la
conformazione
stessa dell’uomo. La difficoltà nel teatro quindi risiede proprio nel
fatto che
il suo linguaggio potrebbe comunicare solo ad un uomo che abbia
recuperato
il proprio stato originario. Anche le altre arti come abbiamo visto possono
provare
questa strada, come avviene per la pittura di Van Gogh ad esempio, ma di
certo
partono avvantaggiate perché hanno dalla loro un linguaggio specifico che
l’uomo può
sentire e riconoscere. La nascita del vero teatro sembra invece
subordinata
alla nascita di tale nuova possibilità di espressione. Per questo Derrida
dirà,
riguardo alle proposte di Artaud, che non ci si può chiedere in modo diretto
come un
teatro possa adempierle, ma capire cosa di certo va evitato per avvicinarsi
ad esso.
Nominare quello che il teatro sicuramente non deve essere, tentando poi per
differenza
di avvicinarsi il più possibile a questa idea di teatro della crudeltà: questa
NOTE
143 M. McLuhan, La galassia Gutenberg. Nascita dell’uomo
tipografico, tr. it. di S. Rizzo, Editore Armando Armando, Roma 1976, qui p.
76.
144 Si veda: M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, tr. it.
di E. Capriolo, Il Saggiatore, Milano 1967.
145 Ivi, p. 318.
146 Ibidem.
147 Ivi, p. 31.
148 A. Artaud, “Lettere sul giudizio di dio”, tr. it. di M.
Dotti in Per farla finita col giudizio di dio, Stampa Alternativa, Viterbo
2000, pp. 56-77, qui p. 99.
149 P. Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia
orale, tr. it. di C. Di Girolamo, il Mulino, Bologna 1984, qui p. 307.
150 A. Artaud “La vecchiaia precoce del cinema” (1933), in Del
meraviglioso. Scritti di cinema e sul cinema, tr. it. di M. Bertolini e E. Fumagalli,
materiali a cura di G. Fofi, Minimum fax, Roma 2001, pp. 88-91, qui p. 90.
151 S. Connor, La voce come medium. Storia culturale del
ventriloquio, tr. it di L. Petullà, Luca Sossella editore, Roma 2007, qui p.
39.
152 Ivi, p. 41.
153 Ivi, p. 40.
154 Ivi, p. 51.
155 Ivi, p. 52.
156 T. W. Adorno, “Opera e long play”, in La musica, i media e
la critica, tr. it di M. B. Ullrich, Tempo Lungo edizioni, Napoli 2002, pp.
123-126, qui p. 124.
157 Ibidem.
158 Sulle teorie contro la riproducibilità tecnica nell’arte e
soprattutto nella musica importante è il suo testo Il feticismo in musica, in
Italia edito nella raccolta di saggi intitolato Dissonanze, tr. it di G.
Manzoni, Feltrinelli, Milano 1959.
159 M. McLuhan, Gli strumenti del comunicare, tr. it. di E.
Capriolo, Il Saggiatore, Milano 1967, qui p. 322.
160 S. Connor, La voce come medium. Storia culturale del
ventriloquio, tr. it di L. Petullà, Luca Sossella editore, Roma 2007, qui p.
53.
161 C. Pasi, Artaud attore, La casa USHER, Firenze 1989.
162 A. Artaud, Vivere è superare se stessi. Lettere a Jean-Louis
Barrault 1935-1945, tr. it. di E. Badellino, Archinto, Milano 2011.
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